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Quasi 9 euro di tasse su 10 vengono prelevate dallo Stato centrale

Sebbene oltre la metà della spesa pubblica italiana sia in capo a Regioni ed enti locali, le tasse degli italiani continuano in massima parte a confluire nelle casse dello Stato centrale. Nel 2019, ad esempio, l’85,4% del totale del gettito tributario è stato prelevato dall’erario: 441,4 miliardi, su un totale di 516,6. Per contro, agli enti periferici sono andate le “briciole”, poco più di 75 miliardi, pari al 14,6% del totale. A segnalarlo è l’Ufficio studi della CGIA. Uno squilibrio, quello tra entrate e centri di spesa, che secondo la CGIA dimostra ancora una volta come l’Amministrazione pubblica centrale sia sempre più arroccata su una posizione di difesa del proprio ruolo di intermediazione.

Funzioni e competenze vanno trasferite agli enti periferici

Le Amministrazioni locali, che gestiscono una quota di spesa pubblica superiore a quella delle Amministrazioni centrali, in virtù del trasferimento di funzioni e competenze avvenuto circa due decenni fa, continuano a dipendere in buona misura dalle coperture finanziarie che arrivano da “Roma”. Tuttavia, i tempi di erogazione da parte dello Stato centrale non sempre sono velocissimi, anzi.
A fronte del risultato emerso da questa elaborazione, appare necessario approvare in tempi ragionevolmente brevi la legge sull’autonomia differenziata chiesta a gran voce da molte Regioni. In altre parole, vanno trasferite funzioni e competenze agli enti periferici, che a loro volta, devono poter contare su risorse proprie che dovranno essere “recuperate”, trattenendo sul territorio buona parte delle tasse versate dai contribuenti.

Dal centro alla periferia, dalle persone alle cose e dal complesso al semplice

Naturalmente le aree del Paese più in ritardo dovranno essere aiutate economicamente da quelle che non lo sono, la solidarietà tra territori costituirà il collante di questo cambiamento epocale. Tutto ciò con l’obiettivo di abbassare il carico fiscale generale, e conseguentemente migliorare i conti pubblici, esaltando così il principio del “vedo, pago e voto”.
Una riforma, quella dell’autonomia, che ridisegnerà il fisco in senso federale attraverso la riscrittura di 3 passaggi fondamentali, dal centro alla periferia, dalle persone alle cose e dal complesso al semplice.

Le prime 20 imposte generano quasi il 94% del gettito totale

Nonostante contiamo un numero spropositato di tasse, imposte e tributi, le prime 20 voci per importo prelevato incidono sul gettito tributario totale per il 93,7%. Solo le prime tre, Irpef, Iva e Ires, pesano sui contribuenti italiani per un valore complessivo pari a 320,6 miliardi di euro. Un importo, quest’ultimo, che “copre” il 62% del gettito complessivo. In vista della prossima riforma fiscale, oltre a ridurre il carico in capo a famiglie e imprese, appare sempre più necessario semplificare il quadro generale, tagliando gabelle e balzelli, che per l’erario spesso costituiscono più un costo che un vantaggio.

Turismo: oltre 25 milioni i pernottamenti stimati dei turisti stranieri

Sono oltre 25 milioni i pernottamenti stimati dei turisti stranieri in Italia per l’estate 2021. Oltre metà di loro (55,4%) ha deciso di andare in vacanza fra giugno e settembre, e il 5% ha scelto proprio il Belpaese. Per il sistema ricettivo alberghiero ed extra-alberghiero italiano questo si tradurrebbe in 7,2 milioni di arrivi e 25,1 milioni di presenze, con un incremento rispettivamente del 29,2% e del 15,3% rispetto al 2020. È quanto emerge da un’anticipazione dell’indagine realizzata da Demoskopika per conto del Comune di Siena sui consumi turistici degli stranieri provenienti da Francia, Germania, Gran Bretagna, Spagna e Stati Uniti. Cinque le regioni più scelte per i soggiorni: Trentino-Alto Adige, Toscana, Sicilia, Puglia e Lombardia.

Mare, montagna, città d’arte e borghi, ma anche agriturismo e terme

Se circa la metà del campione opta per il mare (48,4%), bene anche la montagna (15,1%), le città d’arte e cultura e i borghi (12,3%), e la “campagna, agriturismo” (8%).  E, ancora, grandi città o vacanza al lago, indicati rispettivamente dal 5,4% e dal 4,9% del campione. Chiude la quota dei turisti che quale preferenza ha individuato “terme e benessere” (1,8%). Quasi 6 turisti stranieri su 10 concentreranno la loro villeggiatura nel mese di luglio (25,7%), e agosto (32,7%), mentre a settembre il 19,9% e a giugno il 12,3%.

Identikit del turista d’oltralpe post Covid-19

Quadro o impiegato, di età compresa tra i 36 e i 64 anni, con un titolo di studio medioalto. È questo l’identikit del turista straniero che ha scelto di trascorrere la vacanza in Italia, che preferisce una vacanza di una settimana, in coppia o in famiglia, meglio se al mare nel mese di agosto, ma non disdegna la montagna o le città d’arte. E per il pernottamento? Oltre la metà predilige “albergo o villaggio turistico” (44%) anche se il 35,8%, anche a causa dei modificati consumi turistici legati all’emergenza pandemica, va alla ricerca di una “casa presa in affitto” (19,3%) o di “un’abitazione di proprietà della famiglia” (9,2%) o, ancora, sarà “ospite di parenti e amici” 7,3%). Per vivere una vacanza sicura, poi, indica due priorità, vigilare sull’osservazione delle norme di distanziamento sociale e green pass.

Vacanza sicura, distanziamento sociale e green pass 

Quali sono le azioni prioritarie affinché un turista tedesco, francese, britannico, spagnolo e francese possa sentirsi al sicuro in vacanza? Due le azioni principali emerse dal sondaggio: il 22,3% ritiene sia fondamentale “vigilare sull’osservazione delle norme di distanziamento sociale e sull’uso delle mascherine”, mentre il 17,7% punta sul pass vaccinale per spostarsi in piena libertà e sicurezza durante la permanenza in Italia. A seguire, risulta indispensabile “regolare l’afflusso di turisti per evitare assembramenti” (14,3%), garantire “l’osservanza del distanziamento sociale durante la fruizione dell’offerta culturale” (13,7%), organizzare adeguatamente “il distanziamento sociale e una corretta sanificazione degli ambienti (12%), e “assicurare ai visitatori strutture sanitarie efficienti in grado di prestare soccorso in caso di bisogno” (8,2%).

Italia, estate 2021, arrivi in crescita del 12%

Anche se solo il 4,1% degli italiani ha prenotato, più della metà dei nostri connazionali (53,4%) ha deciso di andare in vacanza nei prossimi mesi. Il 46,6%, invece, ha scelto di non partire e circa 4 milioni di loro hanno deciso in questo modo per difficoltà finanziarie (8,2%). Le cinque regioni più gettonate dell’estate 2021 saranno Puglia, Toscana, Sicilia, Emilia-Romagna e Sardegna. La tradizione prevale, sei italiani su dieci scelgono il mare, ma tengono anche i prodotti “Città d’arte, cultura e borghi” (12,7%) e “Montagna e naturalistico” (9,1%). E le previsioni estive? Si stima che rispetto allo stesso periodo del 2020, 39 milioni di vacanzieri (italiani e stranieri) creeranno quasi 166 milioni di presenze, con un incremento rispettivamente dell’11,9% e del 16,2%. La voglia di tornare a viaggiare insomma è grande, grazie anche all’impatto positivo che avrà l’introduzione del pass vaccinale annunciato dal governo.  È quanto emerge da un’indagine realizzata da Demoskopika in collaborazione con il Corso di laurea in economia e management del Dipartimento di diritto, economia, management e metodi quantitativi dell’Università del Sannio.

Stimate circa 166 milioni di presenze per i mesi estivi

Nel periodo giugno-settembre di quest’anno, secondo Demoskopika, dovrebbero essere oltre 4,1 milioni gli arrivi in più rispetto allo stesso periodo del 2020 con una crescita pari all’11,9%: 38,8 milioni di arrivi nel 2021 a fronte dei 34,7 milioni di arrivi dello scorso anno. La crescita dei turisti si ripercuote positivamente anche sull’andamento dei pernottamenti. L’Istituto di ricerca stima in 165,7 milioni le presenze per l’estate alle porte rispetto ai 142,6 pernottamenti del 2020: poco più di 23 milioni di presenze turistiche in più con una crescita pari al 16,2%.

Le mete più ricercate

La classifica delle mete turistiche più ricercate dagli italiani per i mesi estivi vede in testa la Puglia con 1,9 milioni di arrivi (+13,6%) e 10,6 milioni di presenze (33,9%), Toscana con 4,1 milioni di arrivi (+13,4%) e 19,1 milioni di presenze (23,3%), Sicilia con 1,7 milioni di arrivi (+13,2%) e 6,5 milioni di presenze (23,6%). E, ancora, Emilia-Romagna con 4,5 milioni di arrivi (+12,9%) e 23,1 milioni di presenze (26,3%), Sardegna con 1,5 milioni di arrivi (+12,8%) e 8,2 milioni di presenze (20,0%). Ma in generale piacciono ulteriori cinque sistemi turisti regionali: Campania con 1,9 milioni di arrivi (+12,5%) e 8,5 milioni di presenze (18,1%), Calabria con 981 mila arrivi (+12,1%) e 6,2 milioni di presenze (19,8%), Liguria con 1,6 milioni di arrivi (+12,2%) e 6,3 milioni di presenze (16,4%), Lazio con 2,6 milioni di arrivi (+11,6%) e 8,5 milioni di presenze (8,5%) e, infine, Veneto con 5,3 milioni di arrivi (+11,4%) e 22,4 milioni di presenze (7,4%).

Italiani emigrati all’estero, quasi 1 milione in 10 anni

Sono sempre di più gli italiani che decidono di abbandonare lo Stivale per trasferirsi all’estero. Negli ultimi dieci anni è stato infatti registrato un aumento significativo di emigrazioni, ovvero cancellazioni anagrafiche di cittadini italiani per l’estero. Il volume di rientri non bilancia però le uscite: dal 2010 gli espatri sono stati infatti quasi un milione (899 mila), a fronte di 372 mila rimpatri. Di conseguenza i saldi migratori con l’estero dei cittadini italiani, soprattutto a partire dal 2015, sono stati in media negativi per 69 mila unità l’anno. È quanto rileva l’Istat nel dossier Iscrizioni e cancellazioni anagrafiche della popolazione residente per l’anno 2019.

Nel 2019 il saldo migratorio restituisce un valore negativo di 53.813 unità

Nel 2019, rileva l’Istat, il volume complessivo delle cancellazioni anagrafiche per l’estero è stato di 180 mila unità, in aumento del 14,4% rispetto all’anno precedente. Le emigrazioni dei cittadini italiani sono il 68% del totale (122.020). Se si considera poi il numero dei rimpatri, ovvero delle iscrizioni anagrafiche dall’estero di cittadini italiani, pari a 68.207, il calcolo del saldo migratorio degli italiani con l’estero (iscrizioni meno cancellazioni anagrafiche) nel 2019 restituisce un valore negativo di 53.813 unità. In pratica, il tasso migratorio dei cittadini italiani è pari a 2,2 per mille: più di due italiani su mille abbandonano l’Italia

I flussi più consistenti di trasferimenti partono dal Nord Italia

Ed è il Nord la ripartizione di residenza da cui partono i flussi più consistenti di trasferimenti all’estero, sia in termini assoluti, pari a 59mila (il 49% degli espatri) sia relativi rispetto alla popolazione residente (2,4 per mille residenti). Dal Mezzogiorno si sono invece trasferiti all’estero oltre 43mila italiani (2,2 per mille) mentre dal Centro circa 19mila, con un tasso migratorio sotto la media nazionale e pari all’1,8 per mille. La distribuzione degli espatri per regione di partenza mette in evidenza una situazione più eterogenea. La regione da cui emigrano più italiani, in valore assoluto, è la Lombardia, con un numero di cancellazioni anagrafiche per l’estero pari a 23mila riporta Askanews. A questa seguono Sicilia e Veneto (12mila), Campania (11mila) e Lazio (9mila).

In termini relativi il tasso migratorio più elevato in Trentino-Alto Adige

In termini relativi, continua l’Istat, rispetto alla popolazione italiana residente nelle regioni, il tasso di migratorio più elevato si rileva in Trentino-Alto Adige (4 italiani per mille residenti), mentre in Calabria, Friuli-Venezia Giulia, Marche, Veneto, Sicilia, Molise, Lombardia e Abruzzo la propensione a emigrare è di circa 3 italiani per mille residenti. Le regioni con il tasso migratorio per l’estero più basso sono invece Toscana, Liguria e Lazio (circa 1,7 per mille).  In termini assoluti i flussi di cittadini italiani diretti verso l’estero provengono principalmente dalle prime tre città metropolitane per ampiezza demografica, Milano (7mila), Roma (6mila) e Napoli (5mila), riferisce TheWorldNews.

La fiducia nei media, i risultati di una ricerca globale

Tra fake news e disinformazione abbiamo ancora fiducia nelle notizie divulgate dai media? Pare di si, tanto che a livello globale otto adulti su dieci verificano che le notizie su cui fanno affidamento provengano da fonti affidabili.

Secondo Trust Misplaced?, il report di Ipsos e The Trust Project sulla fiducia nei media, la metà degli intervistati (49%) afferma di assicurarsi regolarmente che le notizie che legge, guarda o ascolta provengano da fonti affidabili. Il 33% afferma invece di farlo solo occasionalmente.

“La verità sta rapidamente diventando un concetto soggettivo, personale, governato soprattutto dalle emozioni – scrive nel rapporto Darrell Bricker PhD, Global Service Line Leader, Public Affairs -. Ora parliamo la nostra verità in contrapposizione alla verità”.

Il 67% legge solo notizie “gratuite”

Se due terzi (64%) degli intervisti afferma di avere facile accesso alle notizie di cui possono fidarsi. dietro questi segnali incoraggianti si cela un possibile terreno fertile per la diffusione della disinformazione. A livello globale, infatti, il 67% degli adulti afferma di leggere solo notizie a cui può accedere gratuitamente, mentre solo il 27% è disposto a pagare per notizie da fonti di cui si fida. La capacità dichiarata di pagare per avere notizie da fonti affidabili varia tra i Paesi, e va dal 57% in India a solo il 13% in Giappone, il 15% in Russia e il 18% in Spagna e Francia.

Il 58% è fiducioso nella capacità di individuare le fakenews

A livello globale, la maggior parte degli adulti intervistati riceve spesso notizie da una varietà di fonti mediatiche. Quasi tre quarti riferiscono di ricevere le proprie notizie almeno tre volte alla settimana da televisione (74%) e social media (72%), sei su dieci da siti (62%) e app di notizie (61%), quattro su dieci dalla radio (42%) e uno su quattro da carta stampata e riviste (24%). Molti poi affermano di essere fiduciosi nella loro capacità di individuare le fakenews (58%), ma sono meno fiduciosi nella capacità dei loro concittadini di farlo (30%). E solo il 46% ritiene che altri Paesi possano diffondere notizie false nel proprio Paese. 

Idee populiste o nazionaliste generano disinformazione

Chi è d’accordo con idee populiste o nazionaliste è più incline alla disinformazione: a livello globale, coloro che concordano sul fatto che “gli esperti di questo Paese non capiscono la vita di persone come me” sono più propensi a leggere solo le notizie a cui possono accedere gratuitamente (72% vs. il 62%).

“La verità e l’affidabilità, anche se a rischio, sono chiaramente ricercate in tutto il mondo – dichiara Sally Lehrman, Ceo e fondatrice di The Trust Project -. Questi dati sono un richiamo all’azione per le organizzazioni giornalistiche per sottolineare i valori e l’integrità che stanno dietro al loro lavoro e conquistare un pubblico più vasto e disposto a pagare”. 

Italiani “in colonna” nel traffico per 38 ore all’anno

Gli automobilisti italiani rimangano incolonnati nel traffico stradale un numero di ore equivalente a una settimana di lavoro. Ogni anno infatti si perdono in coda in media 38 ore, uno dei dati più elevati d’Europa. Lo sottolinea la Cgia di Mestre: nell’Europa a 27 questo record viene battuto solo da Malta e Belgio, a fronte di una media poco superiore alle 30,4 ore. A pagare il conto sono sicuramente i pendolari, che utilizzano l’auto per spostarsi da casa verso l’ufficio o la fabbrica e viceversa, e coloro che per lavoro devono guidare per buona parte della giornata un mezzo di trasporto. È il caso dei camionisti, dei padroncini, dei taxisti, degli autonoleggiatori, degli agenti di commercio e di tantissimi artigiani che per compiere gli interventi richiesti devono muoversi col proprio furgoncino per raggiungere le sedi o le abitazioni dei clienti.

Colpa della scarsità dei mezzi pubblici nelle aree urbane e del deficit infrastrutturale

Secondo la Cgia, riporta Agi, le cause sono principalmente l’insufficienza del numero di mezzi pubblici presenti nelle aree urbane (bus, tram, metro, treni, etc.), che costringe tanti pendolari a usare i mezzi privati, e il deficit infrastrutturale che caratterizza il nostro Paese. I risultati che emergono dai confronti tra l’Italia e i principali Paesi europei “sono impietosi – sostiene la Cgia – e ci invitano a intervenire in tempi brevissimi”.

Una rete ferroviaria e una intensità autostradale al di sotto della media europea

Nel 2017, ad esempio, l’Italia disponeva di 27,8 km di rete ferroviaria per 100mila abitanti, al di sotto della media Ue (42,5 km), mentre, per la sola rete a binario doppio elettrificato, il valore di 12,6 km per 100 mila abitanti era leggermente inferiore alla media europea (14,7 km). Sempre nel 2017, l’Italia presentava una bassa intensità autostradale in rapporto alle autovetture circolanti (1,8 km per 10 mila autovetture), un dato molto inferiore ai valori registrati in Spagna, Francia e Germania (tra 2,8 e 6,8 Km per 10 mila autovetture nel 2016).

Il deficit di competitività del sistema logistico-infrastrutturale costa 40 miliardi di euro all’anno

“Secondo i dati diffusi dal Ministero dei Trasporti – dichiara il coordinatore dell’Ufficio studi Paolo Zabeo – il deficit di competitività del nostro sistema logistico-infrastrutturale costa ai cittadini e alle imprese del nostro Paese 40 miliardi di euro all’anno. Anche per questa ragione è necessario che il Governo, a seguito della grave recessione economica in atto, avvii quanto prima il piano delle infrastrutture e dei trasporti che permetta di ammodernare il Paese, di renderlo più competitivo e, soprattutto, di imprimere una forte scossa positiva alla domanda interna”. 

L’inquinamento acustico colpisce un cittadino europeo su 5

Nel Vecchio Continente l’aumento del traffico stradale e dell’urbanizzazione hanno aumentato il numero delle persone esposte a livelli di rumore elevati, e sono circa 113 milioni gli europei colpiti dal rumore a lungo termine dovuto al traffico urbano. In pratica, un cittadino europeo su cinque è soggetto all’inquinamento acustico. È quanto rileva l’Agenzia europea dell’ambiente (Aea) nel rapporto Rumore ambientale in Europa – 2020, secondo il quale tra il 2012 e il 2017 il numero di persone esposte a livelli di rumore elevati è rimasto sostanzialmente stabile. Il che significa che probabilmente l’Europa non avrebbe ridotto l’inquinamento acustico nel 2020 ai livelli raccomandati dall’Organizzazione mondiale della sanità (Oms).

Il traffico stradale è la prima fonte di inquinamento acustico

L’Oms raccomanda infatti di non superare la soglia di valori medi di 55 dBA (decibel ponderati) nel periodo diurno e 45 dBA in quello notturno. Come spiega l’Aea, però, oltre la metà dei cittadini europei è esposto a soglie di 55 dB o più, che a lungo termine provoca effetti negativi sulla salute. Nel rapporto dell’Aea il traffico stradale, oltre a essere una fonte primaria di inquinamento atmosferico, viene citato come la principale fonte di inquinamento acustico nelle grandi città europee, seguito da quello ferroviario, aeronautico e industriale. In particolare, il rumore ferroviario ha colpito circa 22 milioni di persone, mentre 4 milioni di persone sono state esposte a livelli elevati di rumore degli aerei, riferisce Adnkronos.

Circa 12.000 morti premature sono collegate al rumore ambientale

L’Agenzia stima che l’esposizione a lungo termine al rumore ambientale sia collegato ogni anno in Europa a circa 12.000 morti premature, e contribuisca a 48.000 nuovi casi di cardiopatia ischemica. Si stima inoltre che 22 milioni di persone soffrano di fastidio cronico, e 6,5 milioni di disturbi cronici del sonno. Inoltre, i bambini esposti a rumore elevato a scuola possono sperimentare una scarsa capacità di lettura. Oltre a colpire gli esseri umani, riporta Rinnovabili.it, l’inquinamento acustico rappresenta  una minaccia crescente anche per la fauna selvatica, compromettendone l’attività riproduttiva e aumentando la mortalità degli animali, spesso costretti a fuggire dal proprio habitat in cerca di zone più tranquille.

Le misure suggerite per ridurre i livelli di rumore nelle città

Secondo l’Agenzia le misure per ridurre i livelli di rumore nelle città includono la manutenzione di vecchie strade, una migliore gestione dei flussi di traffico e la riduzione dei limiti di velocità a 30 chilometri all’ora. Alcuni Paesi avrebbero già adottato queste misure utili a ridurre l’inquinamento acustico, e in aggiunta si registrano anche misure volte a sensibilizzare i cittadini verso l’uso di mezzi di trasporto meno rumorosi, come la bicicletta,  o i monopattini elettrici. Gioca un ruolo importante anche la creazione di nuove aree tranquille, come parchi e spazi verdi, dove le persone possano rifugiarsi dal caos urbano.

Il primo passo però, evidenzia ancora il rapporto, è quello di migliorare la comunicazione e la raccolta di dati. Successivamente, si potranno studiare e impiegare nuove soluzioni per quanto riguarda il trasporto urbano e la gestione del traffico veicolare.

Waste Watcher, la dieta mediterranea antispreco seguita da 6 italiani su 10

Il 16 novembre scorso la dieta mediterranea è stata iscritta nella Lista del Patrimonio Culturale Immateriale dell’Umanità dell’Unesco. Si tratta di un riconoscimento a un regime alimentare che per il 64% degli italiani si rivela un prezioso alleato, oltre che della salute, anche nella prevenzione e nella riduzione dello spreco alimentare. E i dati dell’Osservatorio Waste Watcher 2019 di Last Minute Market/Swg poi lo dimostrano: la dieta mediterranea si conferma saldamente patrimonio nazionale. Tanto che 1 italiano su 3, il 33%, dichiara di praticarla nel quotidiano, e 1 italiano su 2, il 52%, la pratica almeno “parzialmente”. In totale, si tratta di un 85% di cittadini che sanno cosa significhi mangiare mediterraneo e improntano, del tutto o in parte, l’alimentazione ai parametri di questa dieta.

Il riconoscimento Unesco di Patrimonio Immateriale dell’Umanità

Ma cosa si intende, esattamente, per dieta mediterranea? “La complessità di sfumature e significati esplicitati dall’Unesco in relazione alla dieta mediterranea sembrano accessibili agli italiani – osserva l’agroeconomista Andrea Segrè, fondatore di Last Minute Market e della campagna Spreco Zero -. Se 1 italiano su 2 (53%) la definisce un ‘regime alimentare’, il 41% riconosce molteplici valenze come le ‘tradizioni alimentari legate ai popoli mediterranei che si affacciano sul Mediterraneo’ (19%), uno stile di vita che include la convivialità e l’attività fisica (17%), un insieme di valori insiti nel riconoscimento Unesco di Patrimonio Immateriale dell’Umanità (5%)”.

Il 39% dei cittadini ha aumentato il consumo di verdura e legumi

“Aspetto decisamente rilevante per il monitoraggio sull’evoluzione delle abitudini alimentari degli italiani – commenta Segrè – è quello legato alle scelte nutrizionali: i dati Waste Watcher evidenziano che 1 italiano su 3 (29%) ha ridotto il consumo di carne, mentre il 39% dei cittadini ha aumentato il consumo di verdura e legumi o abbracciato le regole del regime nutrizionale mediterraneo”.

“Il modello agro-nutrizionale mediterraneo ha un impatto ambientale assai ridotto”

Ma la dieta mediterranea si dimostra anche un prezioso alleato nella prevenzione e nella riduzione dello spreco alimentare secondo il 64% degli italiani, mentre aiuta a ridurre del tutto gli sprechi per il 26%, e secondo il 38% dei cittadini lo riduce parzialmente, riporta Adnkronos.

“Del resto – aggiunge Segrè – i nostri studi dimostrano che il modello agro-nutrizionale mediterraneo ha un impatto ambientale assai ridotto: il consumo di acqua è pari a 1.700 metri cubi pro capite rispetto ai 2.700 del modello anglosassone, il che dimostra la sostenibilità della dieta mediterranea, sia dal punto vista della produzione che del consumo”.

Italia, cresce l’uso dei pagamenti elettronici

Anche se il nostro Paese continua a essere una sorta di “cenerentola” europea in merito all’utilizzo di pagamenti digitali, questa tipologia di pagamento sta registrando segnali di decisa crescita. “Nel 2018, in Italia, il numero di pagamenti al dettaglio effettuati con strumenti diversi dal contante è cresciuto del 6.8%, in accelerazione rispetto al tasso di crescita registrato nell’anno precedente” riporta la 17a edizione dell’Osservatorio Carte di Credito e Digital Payments curato da Assofin, Nomisma e Ipsos, con il contributo di CRIF. A tale dinamica corrisponde un aumento dei volumi complessivi del +4.7%.

Carte di credito e carte di debito in crescita

Lo studio evidenzia che nel 2018 il numero di carte di credito attive in circolazione in Italia è pari a circa 15 milioni di unità contro i 56.3 milioni di carte di debito. La maggior parte delle carte in circolazione è di tipo familiare o personale e solo l’8.2% aziendale. Considerando il numero di transazioni effettuate con carte di credito si nota un percorso di crescita che arriva a superare un milione di unità nel 2018, anno in cui si è registrato il record degli importi transati i quali hanno superato gli 80 miliardi di euro. “Il valore medio delle transazioni effettuate con tale tipologia di carta è leggermente diminuito a conferma di un utilizzo più diffuso anche per acquisti di medio-basso valore” precisa il report. per quanto riguarda le carte di debito, nel periodo 2017/2018 si è visto un aumento del 5% degli importi complessivi delle transazioni. In termini di numero medio di transazioni annue su POS con carta di debito, nel 2018 vi è stato un aumento di due unità rispetto al 2017 (38 contro 36).

Maturo il comparto delle carte prepagate

L’Osservatorio sottolinea che il mercato delle carte prepagate presenta invece “segnali di maturità”. Nel corso del 2018 è stata registrata una lieve riduzione del numero di carte accompagnata però da una crescita significativa del numero di operazioni. Con un aumento del 26.5% delle transazioni effettuate, la carta prepagata si conferma uno strumento di ampia diffusione e utilità per il consumatore.

Il mercato delle carte con funzione rateale

A fine 2018 le carte con funzione rateale in circolazione ammontano a 9.2 milioni, pari a circa un terzo del totale delle carte di credito di sistema. L’aggregato fa riferimento per circa l’80% a carte opzione, che lasciano al titolare la scelta tra la modalità di rimborso a saldo e quella rateale, e per il restante 20% alle carte rateali “pure”, tra le quali quelle finalizzate alla rateizzazione del premio assicurativo. Nel 2018 e nel primo semestre del 2019 è proseguita la crescita dei volumi delle carte opzione/rateali, sebbene a ritmi più contenuti rispetto agli anni precedenti.

Pagamenti sempre più fluidi e digital

La ricerca condotta tra i principali operatori bancari e finanziari sottolinea che gli investimenti si orientano verso nuove tecnologie per rendere i pagamenti sempre più fluidi e digital. Molti operatori hanno dichiarato di essere impegnati nella proposta di soluzioni di mobile payments, instant payments e/o mobile wallets, ad oggi tuttavia ancora poco utilizzati. Attualmente, infatti, lo strumento maggiormente apprezzato dai clienti risulta essere la carta contactless. Le strategie di offerta risultano focalizzate sul mantenimento della relazione privilegiata con il cliente, al fine di evitare il rischio di disintermediazione. In tema di innovazioni tecnologiche, nel comparto finanziario la fenomenologia digital che mostra i tassi di crescita più interessanti sono le App per l’instant payment.

I giovani italiani vogliono espatriare, ma non solo per denaro

Voglia di espatriare? Si, ma solo per i giovani italiani residenti nelle città più ricche. Ne scrive sul Corriere della Sera Federico Fubini, che si chiede perché mai “tanti italiani colti, preparati, giovani e ambiziosi vogliano andarsene” proprio dalle regioni più benestanti d’Italia. “Difficile pensare – commenta Fubini – che siano solo migranti economici dei ceti schiacciati dalle forze tecnologiche e commerciali del secolo”. Gran parte di coloro che vanno all’estero vengono infatti dalle regioni più ricche. Delle 57 province con un tasso di emigrazione internazionale superiore alla media del Paese, 45 registrano infatti anche un tasso di occupazione più alto della media.

La fuga da culle di qualità della vita, ricchezza e produttività

In pratica, “si espatria da culle di qualità della vita, ricchezza e produttività come Mantova, Vicenza, Trieste, Varese, Como, Trento – aggiunge Fubini -. Fra le prime venti province per percentuale di abbandono del Paese, soltanto tre hanno meno occupati della media”.

Perché allora i giovani se ne vanno da città tanto civili? La risposta è che esiste una forte “correlazione fra le aree di origine di questi ragazzi e la mappa delle crisi dei distretti italiani”, spiega Fubini, come Macerata con le calzature, i mobili di Udine o Pordenone, l’industria orafa a Vicenza o Arezzo, e il tessile di Como. “Luoghi di antica ricchezza, ma alta intensità di defezioni verso il resto del mondo, ancor più che verso il resto del Paese”, si legge ancora nell’inchiesta.

Motivazioni culturali e psicologiche

La mappa dell’espatrio dice però che le motivazioni più profonde non sono solo economiche, ma anche culturali e psicologiche. “Le nuove generazioni istruite tendono a trovare il modello di piccola e media impresa italiana arretrato sul piano delle tecnologie, e inadeguato nella prima linea dei manager, riluttante a dar loro spazi di crescita rapida”, si sottolinea nell’articolo. Quindi, decidono che non vogliono più subire la lentezza, l’atrofia e la rigidità delle carriere. E se ne vanno.

C’è chi va e c’è chi viene

Ma se c’è chi va c’è anche chi viene. Sono i medici provenienti da tutto il mondo che da anni lavorano nei nostri ospedali. Come la ginecologa Mbiye Diku di Kinshasa, arrivata negli ’70 dal Congo. “Sono stati anni belli. Anni di alti e bassi. Quando sono arrivata – spiega Mbiye Diku – l’Italia era provinciale. Un posto chiuso. Ma con ingenuità e grazia. Poi ha cominciato ad aprirsi e modernizzarsi sul piano culturale e sociale. Quindi è arrivato il declino. Inesorabile, salvo qualche breve risalita. Ora la crisi è sotto gli occhi di tutti”.

Secondo la dottoressa “siamo tutti numeri, la qualità della prestazione non conta più, si lavora a cottimo, la solidarietà tra colleghi è sparita, anche per il troppo stress”. Per non parlare della cattiva gestione degli ospedali, il blocco delle assunzioni, la crescente insoddisfazione, riporta AGI. Segno delle condizioni di declino in cui versa il Paese.