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Dove si consuma più vino? Negli Usa, grazie anche alle esportazioni dall’Italia

Nel 2023, gli Stati Uniti mantengono la loro posizione di leader nella classifica mondiale dei consumi di vino, raggiungendo gli oltre 30 milioni di ettolitri. Rispetto agli anni scori, però, si è registrata  una leggera diminuzione. Allo stesso modo, il Paese si conferma come il principale importatore mondiale di vino, con un valore di acquisti dall’estero che supera i 6 miliardi di euro. Anche in questo caso si registra una flessione dell’11% rispetto all’anno precedente.

La performance del vino italiano in Nord America

Questi dati emergono dal report del Nomisma Wine Monitor, un osservatorio dedicato al mercato del vino che analizza le performance del vino italiano in Nord America, concentrandosi sugli Stati Uniti e sul Canada. La Francia rimane il principale partner commerciale degli Stati Uniti, con oltre il 37% della quota di mercato, seguita dall’Italia, la cui esportazione nel 2023 è scesa a meno di 2 miliardi di euro, registrando un calo dell’11,4% rispetto al 2022. Tuttavia, l’Italia mantiene comunque una quota di mercato superiore al 30%.

Nonostante una diminuzione del valore delle esportazioni, Francia e Italia consolidano le prime due posizioni in termini di quote di mercato. Nel 2023, sia negli USA sia in Canada, si osserva una tendenza opposta all’anno precedente, ovvero una diminuzione delle importazioni di vino causata da diversi fattori, tra cui un eccesso di acquisti nel 2022 che ha generato un surplus, la stretta monetaria della FED che ha limitato la spesa dei consumatori e una maggiore attenzione verso opzioni considerate salutari.

Francia e Italia si spartiscono il mercato

Considerando il vino imbottigliato, escluso lo spumante, le importazioni negli USA diminuiscono sia in valore che in volume nel 2023, dopo un 2022 particolarmente positivo. Francia e Italia si spartiscono quasi equamente i due terzi della quota di mercato, seguite da Nuova Zelanda, Spagna e Australia. In Canada, le importazioni di vino imbottigliato seguono la tendenza generale, con una diminuzione più accentuata in termini di valore (-15,2%). La Francia conquista la prima posizione tra i partner commerciali, superando gli Stati Uniti.

Le bollicine Made in Italy piacciono sempre

Per la categoria Sparkling, si registrano notevoli contrazioni sia in volume che in valore. In questo contesto, l’Italia mostra una performance meno negativa tra i primi 5 partner degli Stati Uniti, consolidando il secondo posto in termini di quote di mercato (36,4%). In Canada, il segmento sparkling non conferma gli incrementi del 2022, con riduzioni nelle importazioni sia in valore che in volume. Nel 2023, le importazioni di Grandi Formati negli Stati Uniti mantengono il valore (+2,4%), mentre in Canada si osserva un aumento del 8,2% nell’importazione a volume di vino in contenitori tra 2 e 10 litri.

Per quanto riguarda il vino sfuso, negli USA si registra un forte calo sia in valore che in volume, ma l’Italia raggiunge una quota di mercato del 6%. In Canada, le importazioni di questo tipo di vino diminuiscono a valore ma rimangono stabili in volume, con l’Italia che perde terreno, scendendo al quarto posto tra i partner commerciali.

Sua maestà il Prosecco 

Infine, nel 2023, le esportazioni di vini DOP italiani negli USA registrano una contrazione del 4,8% in valore e oltre il 10% in volume. Nonostante la flessione, il Prosecco rimane il primo vino italiano esportato. Sono evidenti trend positivi per i vini bianchi del Trentino Alto-Adige, del Friuli Venezia Giulia e della Sicilia, mentre i vini frizzanti, tra cui il Lambrusco, registrano le performance più negative. In Canada, le esportazioni di vini DOP subiscono una contrazione sia in valore che in volume, principalmente a causa del crollo dei rossi Veneti, mentre i rossi DOP toscani mantengono la leadership tra i vini a denominazione più venduti nel Paese, seguiti dal Prosecco.

Bullismo e cyberbullismo: il 65% dei giovani ha subito violenza

Il 65% dei giovani tra 14 e 26 anni dichiara di essere stato vittima di violenza. Tra questi il 63% ha subito atti di bullismo e il 19% di cyberbullismo.
La percentuale di chi ha subito una violenza, fisica o psicologica, sale al 70% se si considerano le ragazze e all’83% tra chi si definisce non binario, mentre scende al 56% tra i maschi.

Tra le violenze fisiche di cui è stato testimone il 46,5% dei ragazzi, le più frequenti sono aggressioni (68%) e scherzi pesanti (63%).
È quanto emerge dall’indagine dell’Osservatorio indifesa, realizzato da Terre des Hommes, OneDay e la community di ScuolaZoo. 

Le ragazze segnalano catcalling e molestie sessuali 

Anche le tipologie di violenza subite sono diverse tra i generi, a eccezione delle violenze psicologiche e verbali, che colpiscono in egual misura maschi e femmine (71% in generale e femmine, 69% maschi).
Si configura come un fenomeno più maschile, invece, il bullismo (maschi 68%, femmine 60%), mentre il cyberbullismo sembra colpire più le ragazze (21% vs 16%).

Non stupisce invece che tra gli atti di violenza più segnalati dalle ragazze ci sia il catcalling, ovvero commenti di carattere sessuale non graditi ricevuti da estranei in luoghi pubblici, al 61% (maschi 6%, in generale 40%) e le molestie sessuali al 30% (7% maschi, 23% in generale).
Tutte le tipologie segnano percentuali più alte tra chi si definisce non binario: violenze psicologiche o verbali e bullismo (80%), catcalling (66%), molestie sessuali (36%), cyberbullismo (27%).

Si prende di mira soprattutto l’aspetto fisico (body shaming)

Bullismo, cyberbullismo, violenze psicologiche e verbali prendono di mira soprattutto l’aspetto fisico (body shaming, 79%), poi orientamento sessuale (15%), condizione economica (11%), origine etnica/geografica (10,5%), identità di genere (9%), disabilità (5%) e religione (4%).
La prima conseguenza di queste violenze è la perdita di autostima, sicurezza e fiducia negli altri (75%).

In un contesto in cui la salute mentale dei ragazzi è sempre più a rischio, appare preoccupante che il 47% soffra di ansia sociale e attacchi di panico come prodotto di queste violenze tra pari, e che il 45% segnali isolamento e allontanamento dai coetanei.
Gli altri effetti negativi riguardano difficoltà di concentrazione e basso rendimento scolastico (28%), depressione (28%), paura e rifiuto della scuola (24%), disturbi alimentari (24%), autolesionismo (20%).

Scuola, web, strada, famiglia i luoghi pericolosi

Dopo la scuola (66%), è il web il luogo dove è più probabile essere vittime di violenza (39%), riporta Ansa. Per le ragazze Internet scende al terzo posto (36%), superato dalla strada (41%), mentre è al quarto posto (36%) tra chi si definisce non binario, superato dalla strada e dalla famiglia (entrambe 44%).

Il rischio maggiore in cui si può incorrere online è il cyberbullismo (56%), seguito da revenge porn (45%), furto d’identità, perdita della privacy (35%), adescamento da parte di estranei (35%), molestie (30%), alienazione dalla vita reale (25%), stalking (23%), solitudine (9%), emarginazione (6%). Meno dell’1% ritiene che sul web non si corrano rischi.

Dopo il Covid Italia cresciuta più dei big della UE

Lo sostiene l’Ufficio studi della CGIA: nonostante il rallentamento dell’economia in questo ultimo anno e mezzo l’Italia ha superato meglio dei suoi principali competitor europei gli effetti negativi provocati da crisi pandemica, caro energia e crescita esponenziale dei tassi di interesse.
Tra il 2019 e il 2023 l’Italia ha segnato una variazione del Pil del +3%, contro il +2,33% della Spagna, il +1,83% della Francia e il +0,73% della Germania. 

Un trend positivo che a ottobre 2023 ha spinto il tasso di occupazione a toccare il 61,83%.
Oggi in Italia si contano quasi 23,7 milioni di addetti, un record mai raggiunto in precedenza.
Turismo, manifattura, consumi delle famiglie, investimenti ed export hanno sostenuto la ripresa, la più ‘brillante’ tra i principali Paesi dell’Eurozona.

Nessun trionfalismo

Povertà, disoccupazione femminile, lavoro nero, tasse, burocrazia, evasione, inefficienza della PA e debito pubblico però continuano ad affliggere l’Italia e a frenare la crescita.

Nonostante le chiusure delle attività, i divieti alla mobilità e la contrazione dei consumi provocata dal Covid nel biennio 2020-2021, l’aumento dei costi delle bollette di luce e gas e l’impennata dei tassi di interesse determinata dalla Bce, le misure economiche/sociali messe in campo dagli ultimi esecutivi hanno sortito l’effetto sperato. Ovvero, hanno evitato una crisi sociale e garantito una ripresa dell’economia che nessuno prevedeva. O quasi. 

Un debito pubblico tra i più alti del mondo

Tra contributi a fondo perduto, ristori, indennizzi, misure di sostegno al reddito, crediti di imposta, tra il 2020 e il 2022 i governi hanno messo a disposizione di famiglie e imprese 180 miliardi di euro. Per mitigare il caro bollette, invece, sono stati erogati altri 90 miliardi di euro.
Complessivamente, quindi, sono stati stanziati oltre 270 miliardi, che hanno ‘anestetizzato’ gli effetti negativi provocati da pandemia e caro energia.

Certo, non sempre questi soldi sono stati spesi bene o sono finiti nelle tasche di chi ne aveva più bisogno.
Inoltre, l’incremento della spesa ha contribuito ad aumentare decisamente il nostro debito pubblico, che rimane tra i più alti al mondo.
Tuttavia, sono risorse erogate per non far collassare l’economia, e il risultato è stato raggiunto. 

Più veloci di tutti?

Tra i 20 paesi dell’Area dell’euro, quelli demograficamente più piccoli hanno registrato le crescite più elevate. Rispetto al periodo pre-Covid, infatti, l’Irlanda è cresciuta del 33,1%, Malta +14,4%, Cipro +14,2%, Croazia +13,4%, Lituania +8,3% e Slovenia +7,7%.

Di contro, i paesi più importanti hanno registrato variazioni nettamente inferiori, e se l’Italia ha segnato un +3% la media europea è stata del +3,5%.
Nel 2023 la previsione di crescita del nostro Paese dovrebbe essere del +0,7%, dato nettamente inferiore al +2,4% stimato per la Spagna e leggermente più contenuto rispetto al +1% in capo alla Francia. La Germania, invece, con una variazione del -0,3% rispetto al 2022 rimane in recessione.

GenZ: meglio lo stipendio o il lavoro dei sogni?

In Italia il 20% degli assunti appartiene alla GenerazioneZ. Per i nati tra il 1995 e il 2010 il driver principale delle scelte che riguardano il lavoro è lo stipendio, che raccoglie il 61% delle ‘preferenze’. Seguono, a pari merito, la volontà di fare un lavoro in linea con i propri studi/interessi, e il bilanciamento tra vita e lavoro, entrambi al 32%.
Fra gli indicatori che riscuotono meno interesse, a sorpresa, emerge l’attenzione dell’azienda verso i dipendenti (12%), e ancora meno successo, riscuotono l’allineamento fra valori personali/aziendali, l’impegno verso la sostenibilità e l’ambiente, e i benefit aziendali, tutti fermi al 9%.

Buone performance ottiene il tema della flessibilità oraria, individuato come componente fondamentale per la scelta del lavoro dal 30% dei GenZ.
Sono alcuni risultati della svolta da Adecco, società di The Adecco Group, in partnership con Teleperformance.

Non rinunciano a interessi e crescita professionale

La GenZ non rinuncia ai propri interessi e alla crescita professionale: 6 su 10 sono disposti ad accettare uno stipendio più basso in cambio di un ruolo gratificante e in linea con gli studi compiuti.

Probabilmente, anche per questa ragione, il 74% dei giovanissimi che già lavorano si dichiara soddisfatto della propria occupazione, e il 40% afferma di avere trovato il lavoro della propria vita.
Più che il lavoro, poi, a creare più preoccupazione sembra la ricerca dello stesso. Per 68% la ricerca di lavoro viene effettuata con sentimenti negativi, legati principalmente a preoccupazione (38%), ansia (31%) o rassegnazione (12%).

Differenze di genere

Lo stipendio è il primo fattore determinante nella scelta del lavoro sia per gli uomini (63%) sia per le donne (60%). Le similitudini, tuttavia, finiscono qui. Al secondo posto, infatti, il 31% degli uomini pone la tipologia di contratto, mentre le donne (39%) un lavoro in linea con i propri studi/interessi.
Al terzo posto per gli uomini della GenZ (29%) si piazza la possibilità di fare carriera, mentre per le donne il bilanciamento vita-lavoro (35%).

Altre differenze emergono nell’importanza attribuita all’inclusività in azienda, che per le donne (16%) è decisamente più importante che per gli uomini (10%). E nell’allineamento fra i valori aziendali e personali, più importante per gli uomini (11%) rispetto alle donne (6%).

Differenze geografiche

Lo stipendio risulta al primo posto in tutta Italia, seppur con alcune differenze percentuali: 68% nel Nord Ovest, 55% Nord Est, 57% Centro, 62% Sud.
Quanto al bilanciamento vita-lavoro, nel Nord Est è un fattore fondamentale per il 34% degli intervistati, contro il 33% nel Nord Ovest, il 28% nel Centro e il 31% al Sud e Isole.

Al Centro, al Sud e nelle Isole la GenZ è più attenta a tematiche ambientali, mentre l’impegno del datore di lavoro è considerato dirimente nel 10% dei casi per tutte le aree geografiche. Non molto lontano dal 9% rilevato nel Nord Est, ma che inizia mostrare un gap decisamente più ampio con il Nord Ovest, dove questo aspetto si ferma al 7%.

Fancy Food: il falso Made in Italy è un business da 120 miliardi

In occasione dell’evento fieristico mondiale dedicato alle specialità alimentari, il Summer Fancy Food 2023 di New York City, Coldiretti e Filiera Italia lanciano l’allarme: in tutto il mondo si producono e si vendono falsi prodotti alimentari Made in Italy. Tanto che il falso agroalimentare tricolore vale 120 miliardi a livello globale. Presso il Javits Center è stata anche inaugurata la prima esposizione del Made in Italy tarocco a tavola, con le più grottesche imitazioni delle specialità nazionali scovate negli Usa. Imitazioni che tolgono spazio e valore sui mercati ai veri prodotti tricolori. E sono proprio gli Stati Uniti il Paese dove le produzioni tricolore ‘taroccate’ registrano i fatturati più elevati.

Negli USA il 90% dei formaggi italiani arriva da Wisconsin, California, New York

Negli Stati Uniti, che detengono saldamente la leadership produttiva del falso Made in Italy, il fenomeno delle imitazioni di cibo tricolore è arrivato a rappresentare oltre 40 miliardi di euro.
Dal Parmesan al Romano senza latte di pecora, dall’Asiago al Gorgonzola, dalla mozzarella fino al Provolone, il 90% dei formaggi di tipo italiano in Usa è in realtà realizzato in Wisconsin, California e New York, 
La produzione di imitazioni dei formaggi italiani nel 2022 ha raggiunto negli Usa il quantitativo record di oltre 2,7 miliardi di chili, con una crescita esponenziale negli ultimi 30 anni, tanto da aver superato addirittura la stessa produzione di formaggi americani come Cheddar, Colby, Monterrey e Jack, risultata nello stesso anno pari a 2,5 milioni di chili.

Anche olio, salumi e conserve vengono “clonati”

Se solo un prodotto agroalimentare che richiama l’Italia su sette venduti negli States arriva realmente dal Belpaese, dove le esportazioni nel 2022 sono state pari a 6,6 miliardi, il problema riguarda tutte le categorie merceologiche.
Dai salumi più prestigiosi, come le imitazioni del Parma e del San Daniele o la mortadella Bologna e il salame Milano, venduto in tutti gli Stati Uniti, al Pompeian Olive Oil che non ha alcun legame con l’antica città campana, anche Provolone, Gorgonzola, Pecorino Romano, Asiago o Fontina vengono ‘clonati’. E perfino le conserve, come il pomodoro San Marzano.

Oltre due prodotti agroalimentari tricolori su tre sono taroccati

L’industria del falso Made in Italy a tavola è diventato un problema planetario, con il risultato che per colpa del cosiddetto ‘italian sounding’, nel mondo oltre due prodotti agroalimentari tricolori su tre sono falsi, senza alcun legame produttivo e occupazionale con il nostro Paese.
In testa alla classifica dei prodotti più taroccati ci sono però i formaggi, a partire dal Parmigiano Reggiano e dal Grana Padano, con la produzione delle copie che ha superato quella degli originali.
Un fenomeno diffuso soprattutto in Sudamerica, dove peraltro rischia di essere ulteriormente spinto dall’accordo di libero scambio Mercosur, che obbliga di fatto Parmigiano e Grana a convivere per sempre con le brutte copie sui mercati locali: Parmesano, Parmesao e Reggianito.

Sistema Sanitario Nazionale, i tagli pesano sulla salute

Negli ultimi 15 anni, il Fondo Sanitario Nazionale ha subito una serie di tagli come parte della revisione della spesa per bilanciare i conti pubblici. È quanto emerge dalla ricerca “Il Termometro della Salute”, promossa dall’Osservatorio Salute, Legalità e Previdenza Eurispes-Enpam, che offre un’analisi complessiva della realtà e delle prospettive del Sistema Sanitario Nazionale. Questi tagli hanno comportato una progressiva riduzione delle capacità operative e il declino del nostro Paese nelle classifiche mondiali sull’investimento in sanità pubblica rispetto al PIL. Nel 2019, anno di svolta prima dell’arrivo della pandemia, la quota del PIL destinata alla sanità era scesa al 6,2%, a cui si aggiungeva una spesa diretta dei cittadini pari al 2,2%. La media dei Paesi dell’Unione Europea era rispettivamente del 6,4% e del 2,2%, mentre in Germania era del 9,9% e 1,7%, in Francia del 9,4% e 1,8%, e in Svezia del 9,3% e 1,6%. Ciò significa che gli investimenti pubblici nella sanità in Germania e in Francia sono oltre un terzo superiori a quelli italiani. Pertanto, dopo il periodo “straordinario” in cui sono state allocate risorse per affrontare la pandemia e la campagna di vaccinazione (anche se solo parzialmente realizzata finora), l’ultima Legge di stabilità ha nuovamente ridotto la quota del PIL destinata al Servizio Sanitario Nazionale, avvicinandosi al minimo storico intorno al 6%.

Negli ultimi dieci anni sempre meno risorse al SSN

Nel corso di un decennio, sono stati sottratti oltre 37 miliardi di euro alla sanità pubblica, di cui circa 25 miliardi nel periodo 2010-2015 a seguito di tagli previsti da diverse manovre finanziarie, e oltre 12 miliardi nel periodo 2015-2019 a causa del “definanziamento”, che ha assegnato al SSN meno risorse rispetto ai livelli programmati (dati Fondazione Gimbe).

E il personale sanitario invecchia

L’invecchiamento del personale e la precarietà rappresentano un problema in crescita. Per medici, infermieri e altre figure professionali a supporto del SSN, la mancanza di rinnovo generazionale e il blocco delle assunzioni hanno causato un aumento della precarietà che si riflette sulla continuità dell’assistenza. Ma prima di tutto, ciò ha portato a un significativo invecchiamento del personale, con un alto numero di pensionamenti. Questo fenomeno, che ha già ridotto il numero di professionisti, è destinato ad esplodere nei prossimi anni e coinvolge anche il settore sanitario privato.

Pochi medici, pochissimi infermieri

Nel 2019, in Italia c’erano 4,05 medici ogni 1.000 abitanti, un dato leggermente inferiore alla Spagna (4,4) e alla Germania (4,39), ma superiore alla Francia (3,17). La quota di infermieri (circa 6,16 ogni 1.000 abitanti, con 1,4 infermieri per ogni medico) posiziona l’Italia agli ultimi posti della classifica dei paesi dell’OCSE. L’anagrafe della classe medica è chiara: molti professionisti sono anziani o di mezza età, mentre i giovani sono pochi. Più della metà della classe medica italiana (56%) rientra nella fascia di età compresa tra i 55 anni e oltre i 75 anni e non sarà più operativa entro i prossimi cinque anni. I medici giovani, cioè sotto i 35 anni, rappresentano solo l’8,8% in Italia, a fronte di percentuali superiori al 30% in Gran Bretagna, Olanda e Irlanda, o superiori al 20% in Germania, Spagna e Ungheria. La Francia, pur avendo un dato inferiore al nostro per gli under 35, presenta comunque un 15,7% di giovani medici, quasi il doppio rispetto all’Italia.

Famiglia e denatalità: le opinioni degli italiani

Qual è la percezione degli italiani riguardo alla famiglia, e cosa pensano del problema della denalatità? Risponde FragilItalia, che in occasione della Giornata Internazionale della Famiglia, che si celebra il 15 maggio, ha rilasciato il report elaborato da Area Studi Legacoop e Ipsos dal titolo ‘Famiglia. Percezione, ruolo e fattori di crisi. La sfida della denatalità’. Stando ai risultati, il 64% degli intervistati definisce la famiglia come un’unione tra due persone che decidono di convivere per perseguire un progetto di vita comune, a prescindere che siano di sesso diverso o dello stesso sesso. Una percentuale che aumenta al 73% tra gli under30. Quanto alla denatalità in Italia, oltre sette italiani su dieci la ritengono un problema urgente, le cui cause principali vengono individuate negli stipendi bassi, la precarizzazione del lavoro, la mancanza di sostegni pubblici e di servizi.

La crisi demografica

La denatalità è un elemento centrale della crisi demografica che investe il Paese, con effetti negativi sulla vita economica e sociale. Un problema avvertito come urgente dal 74% degli italiani. E seppur con un livello di urgenza inferiore rispetto alla media del totale, anche dal 66% degli under30, per i quali ciò si scontra con il desiderio di avere figli. Sette su dieci ne vorrebbero almeno due. 
Le principali cause del problema vengono indicate negli stipendi bassi e nell’aumento del costo della vita (70% vs 63% under30), nell’instabilità lavorativa e nella precarizzazione del lavoro (63% vs 56% under30), nella mancanza di sostegni pubblici per i costi da affrontare per crescere i figli (59% vs 52% under30), nella mancanza di servizi per le famiglie diffusi e accessibili a tutti (57% vs 45% under30) e dalla paura di perdere il posto di lavoro (56%, percentuale che aumenta al 61% tra le donne).

Matrimonio? Solo per il 22%

La visione più tradizionale di famiglia, concepita come l’unione tra uomo e donna, uniti in matrimonio civile/religioso, è appannaggio del 22%, mentre soltanto il 14% la considera come l’unione tra due persone dello stesso sesso. Riguardo alle funzioni della famiglia, il 49% indica l’educazione dei figli (55% uomini), il sostentamento e il mutuo aiuto tra i componenti (47%), e il supporto psicologico reciproco (44%, 53% donne). Tra le cause di fragilità dei legami affettivi, ai primi posti si collocano egoismo, mancanza di comunicazione, difficoltà ad assumersi le proprie responsabilità, scarso spirito di sacrificio e incapacità di affidarsi all’altro.

Le percezioni degli under 30

Tra la fascia più giovane la visione più tradizionale della famiglia, come unione in matrimonio tra uomo e donna, scende dal 22% al 12%., mentre in riferimento alle funzioni della famiglia, gli under30 collocano al primo posto il supporto psicologico ai componenti del nucleo (58%), al secondo l’educazione dei figli (46%) e al terzo il sostentamento e il mutuo aiuto (37%). Difficoltà ad assumersi le proprie responsabilità e insicurezza guidano la classifica delle principali fragilità dei legami affettivi per gli under 30, che rispetto alla media, hanno più paura del tradimento.

La criminalità in Italia tra realtà e percezione

Stando ai dati elaborati dal Servizio Analisi Criminale della Direzione Centrale della Polizia Criminale, nel periodo 2007-2022 il totale generale dei delitti in Italia evidenzia dal 2014 al 2020 una costante flessione, per risalire nel 2021 e nel 2022. In particolare, nel 2022, i delitti commessi registrati sono 2.183.045, +3,8% rispetto al 2021, soprattutto furti (+17,3%), estorsioni (+14,4%), rapine (+14,2%), e violenze sessuali (+10,9%). In diminuzione, invece, sfruttamento della prostituzione e pornografia minorile (-24,7%), usura (-15,8%), contrabbando (-10,4%), e incendi (-3%). Emerge dall’indagine ‘La criminalità: tra realtà e percezione’, nata nel quadro del Protocollo d’intesa sottoscritto dal Dipartimento della Pubblica Sicurezza – Direzione Centrale della Polizia Criminale e l’Eurispes.

L’andamento dei delitti negli anni della pandemia

Considerando il quadriennio 2019-2022, nell’ultimo anno si evidenzia un significativo decremento degli atti persecutori e i maltrattamenti contro familiari e conviventi, mentre le violenze sessuali, a fronte di un decremento nel 2020, mostrano un andamento in costante incremento. Inoltre, nel 2022 sono stati registrati 314 omicidi, con 124 vittime donne (+4% vs 2021), di cui 102 uccise in àmbito familiare/affettivo. Di queste, 60 hanno trovato la morte per mano del partner/ex partner. Il totale degli omicidi commessi, però, registra in generale un calo nel corso degli anni: nel 2007 erano il doppio (632).

I cittadini e la sicurezza

Se la casa è il luogo in cui una fetta più ampia del campione si sente al sicuro (81%), l’83,3% afferma di sentirsi sicuro anche a uscire da solo di giorno nella zona di residenza. Le cose cambiano se si tratta di uscire nelle ore serali: il tasso di risposta positiva scende al 67,6%.  Negli ultimi tre anni però la paura di subire reati è aumentata (24,8%), e fra i crimini che più preoccupano gli italiani spiccano furto in abitazione (26,6%), aggressione fisica (17,7%) e la paura di subire uno scippo/borseggio (11,1%). Il disagio sociale viene indicato come prima motivazione alla base della diffusione dei fenomeni criminali (16,6%), e il 9% denuncia un’insufficiente presenza delle Istituzioni dello Stato.

I reati informatici

Tra i reati percepiti come più pericolosi rispetto al passato c’è il furto di dati personali su Internet (56,2%). Nell’ultimo anno il 14,7% degli italiani ha infatti dichiarato di essere stato vittima di truffe su Internet, e oltre un quinto riferisce di essere stato vittima di truffe negli acquisti online (21,6%).
Il secondo reato informatico più diffuso sono le richieste di denaro con inganno (18,7%), il terzo la sottrazione di dati di autenticazione (17,8%), poi l’inganno da falsa identità (14,4%), e il furto di identità social (13,7%). Un intervistato su 10 ha poi subìto cyber stalking, il 9,1% la violazione dell’account di posta elettronica, e il 6% un’altra forma di ‘violenza digitale’, il revenge porn.
Il 19,6%, inoltre, riferisce di aver avvertito una violazione per aver visto pubblicare online senza consenso foto in cui era presente.

Il primo bacio non si scorda mai? Vero, ma 1 italiano su 4 bacerebbe un’altra persona

È un momento saldamente fissato nella mente di oltre 9 italiani su 10, che conferma il detto ‘il primo bacio non si scorda mai’. Il 95% degli italiani infatti ricorda l’iniziale approccio all’altro e all’intimità, che vede protagonisti soprattutto i ragazzi in età preadolescenziale, di 12 e 15 anni (49%), o quelli tra i 15 e i 18 (39%). Forse proprio perché scambiato in giovane età, il primo bacio riaffiora nella mente degli italiani come ‘impacciato e imbarazzante’ (43%), ma anche ‘dolce e romantico’ (37%), non sempre ‘travolgente’ (14%), e fortunatamente, quasi mai ‘disastroso’ (6%). Ma se fosse possibile tornare indietro nel tempo 1 su 4 bacerebbe qualcun altro/a. È quanto emerge dall’indagine di MioDottore, piattaforma del gruppo DocPlanner per la prenotazione online di visite mediche.

Cosa si ricorda di quel dolce momento? 

Cosa si rievoca più facilmente di quel momento? Non il giorno in cui è avvenuto (3%) né cosa si indossava (3%), bensì la location, un particolare impresso nella memoria di oltre 1 italiano su 2 (58%). Tanto da superare addirittura il ricordo del volto della persona baciata (53%) e delle emozioni connesse a quell’istante (50%). Spesso il primo bacio suggella una relazione più o meno seria, ma gli anni passano e i sentimenti mutano quasi per tutti. Così 7 italiani su 10 (71%) ammettono di aver perso di vista la persona con cui hanno condiviso quel momento. E se fosse possibile tornare indietro, il 26% cambierebbe la persona con cui ha condiviso quel dolce momento.

Il primo non sempre è il migliore

Alcuni poi avrebbero voluto vivere quell’instante con emozioni diverse da quelle provate (17%) o farlo accadere in un momento (15%) o un luogo (13%) differente. Altri ancora modificherebbero il bacio stesso (19%), che non ricordano come il migliore della loro vita. Infatti, in un’ipotetica classifica dei baci più indimenticabili il primo bacio occupa solo il terzo gradino del podio (18%), preceduto da quelli che i figli donano ai genitori (21%) e dal bacio che gli italiani quotidianamente ricevono dall’attuale partner (31%). Si potrebbe poi pensare che ad avere i ricordi più nitidi del primo bacio siano i giovani, ma non sempre è così.

Baby Boomers più romantici dei Millennials?

Sembra infatti che il tempo trascorso dal primo bacio a oggi non incida sulla probabilità di ricordarlo meglio. Anzi, un numero maggiore di Millennials ha dimenticato quel dolce avvenimento rispetto ai Baby Boomers: l’11% degli italiani tra 26-41 anni sostiene di non ricordare nulla del loro primo bacio, contro il 4% degli over58. Inoltre, pare che i Boomers abbiano i ricordi più vividi anche dei piccoli dettagli: non solo il luogo in cui hanno dato il primo bacio o le sensazioni a esso associato, ma perfino l’outfit (7%). Percentuale che scende al 2% nel caso di chi ha tra 26 e 41 anni.

Meno del 30% di italiani beve l’acqua del rubinetto 

In tema di acqua pubblica, la conoscenza e percezione degli italiani continuano a essere in contraddizione con i dati fattuali. L’Italia è il primo tra i grandi paesi europei per qualità dell’acqua: l’85% della risorsa viene prelevata da fonti sotterranee, quindi protette e di qualità, contro il 69% della Germania, il 67% della Francia o il 32% di Spagna e Regno Unito, fino al 23% della Svezia. Ma sono meno del 30%, ovvero il 29,5%, gli italiani che consumano con regolarità acqua del rubinetto, nonostante il 96,3% dichiari di adottare comportamenti sostenibili. I giovani però potrebbero invertire questa tendenza: il 60% di under 30 già beve senza problemi l’acqua degli erogatori pubblici.
A delineare lo scenario è il libro bianco 2023 Valore acqua per l’Italia, realizzato dall’osservatorio istituito dalla community creata da The European House – Ambrosetti.

Al Nord-Est ci si fida di più della qualità

Nell’area Nord-Est la ricerca segnala una maggior fiducia sulla qualità dell’acqua del rubinetto. L’87,4% degli intervistati la ritiene infatti di livello alto o medio, mentre al Sud e nelle Isole la fiducia scende di oltre 14 punti percentuali (72,8%). Quello che non convince nel Nord-Italia è soprattutto il sapore, ma al Centro e al Sud gli intervistati dichiarano di non sentirsi sicuri della qualità di quest’acqua, o non si fidano dell’igiene delle autoclavi.

Occupazione ed economia preoccupano più della siccità

Nonostante un 2022 drammatico dal punto di vista dell’emergenza siccità (quasi il 70% del campione riconosce il 2022 come anno più caldo della nostra storia), il cambiamento climatico viene percepito dagli solo come il terzo problema più grave che affligge il paese (37,4%) dopo ‘sanità’ (39,9%) e soprattutto ‘occupazione’ ed ‘economia’ (62,2%). I due terzi del campione, poi, sottostima gli impatti del cambiamento climatico sull’agricoltura. Il 72% degli italiani, inoltre, sottostima il proprio reale consumo giornaliero d’acqua, pari a 220 litri pro capite, ma al contempo 9 italiani su 10 sovrastimano la propria bolletta: l’88,4% non conosce il costo unitario dell’acqua in Italia, ritenendolo il più delle volte troppo alto.

In Italia l’acqua costa meno

L’Italia in realtà è uno dei paesi europei con la tariffa idrica più contenuta (2,10 euro/m3). Si spende meno solo in Bulgaria, Romania e Grecia, mentre in Danimarca si superano i 9 euro al metro cubo, e nella vicina Francia il costo è quasi doppio rispetto al nostro paese. Gli italiani ritengono le proprie spese legate all’acqua troppo elevate, ma oltre la metà (55%) non conosce il bonus idrico o le tariffe agevolate in vigore, così come strumenti di monitoraggio dei consumi. Inoltre, il parco contatori installato ha un’età media di 25 anni (circa 20 milioni di pezzi in totale), fattore che rende più complessa l’installazione di strumenti tecnologici per il monitoraggio e la gestione dei consumi.