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Quanto costa la transizione green alle imprese? Circa un terzo della produttività in 5 anni

È una lotta per la sopravvivenza dell’ambente, ma anche delle imprese. La produttività può superare i livelli attuali, ma solo sul lungo periodo. Secondo la Bce nei prossimi 5 anni la transizione energetica può costare circa un terzo di produttività delle imprese più inquinanti. E solo nel lungo periodo la produttività tornerebbe a crescere, superando addirittura quella attuale.

L’allarme arriva poche settimane dopo che la Commissione europea ha annunciato i nuovi target di riduzione delle emissioni al 2040. Che dovranno essere il 90% in meno rispetto ai valori di riferimento del 1990 e arrivare all’azzeramento entro il 2050. 

L’Europa diventerà il primo continente climaticamente neutro?

L’obiettivo, ampiamente dichiarato, è far diventare l’Europa il primo continente climaticamente neutro al mondo, nonostante il nuovo target sia contenuto in una comunicazione di orientamento, e non in un vero e proprio provvedimento normativo.
Ma a destare preoccupazione nel breve-medio termine è l’aumento dei costi di produzione, determinato principalmente dalle nuove imposte sulle emissioni di CO2 e dalle tensioni geopolitiche in atto in Ucraina e Medio Oriente

Gli esperti dell’Eurotower muovono le proprie considerazioni dai dati raccolti nelle sei più grandi economie nell’area della moneta unica, tra cui l’Italia. Per simulare le possibili ricadute economiche della transizione energetica si sono considerati le conseguenze di pandemia e caro-energia.

“I costi della transizione saranno sempre inferiori rispetto a quelli dell’inazione”

Gli autori del report, però, evidenziano come gli effetti negativi siano stati contenuti grazie a “generosi e rapidi interventi a livello nazionale ed europeo” che hanno sostenuto famiglie e imprese per evitare effetti distorsivi sull’economia.
“I costi della transizione verso un’economia a basse emissioni di CO2, però, saranno sempre inferiori rispetto a quelli dell’inazione”, specificano gli economisti dell’Eurotower. Non investire nella transizione aumenterebbe esponenzialmente i rischi delle aziende e dei cittadini connessi ai disastri ambientali.

Secondo le stime, le alluvioni dello scorso anno hanno generato danni per oltre 200.000 dollari a testa per gli emiliani, con una particolare vulnerabilità degli imprenditori che in poche ore hanno visto spazzare via la loro fonte di guadagno.

Imprese italiane e tedesche le più vulnerabili dell’Eurozona

Secondo l’Eurotower le imprese nostrane e quelle della Germania sono “le più vulnerabili” tra quelle dei principali Paesi dell’eurozona, minacciate dalla stretta monetaria, le turbolenze nel commercio globale e le tensioni geopolitiche.
A rischio, ha spiegato la Bce, è il 9% delle imprese italiane, con una esposizione maggiore nel settore industriale, dove le dichiarazioni di fallimento superano i livellipre-pandemia, e su cui pesa anche la crisi demografica.

Da Francoforte però spiegano che l’impatto negativo sulla produttività delle aziende potrebbe essere compensato a lungo termine dall’adozione di nuove tecnologie più ecologiche e digitali.
Sullo sfondo, l’AI, che può diventare una preziosa alleata delle imprese per evitare di fallire, prima, e riprendere a ‘macinare’ poi.

Turismo: operatori in difficoltà per crisi climatica e inflazione, ma pronti a investire

La congiuntura economica non favorevole del contesto generale, acuita dai conflitti internazionali, ha reso complicata l’operatività per il 62% degli operatori turistici, che hanno risentito soprattutto dell’aumento dei costi energetici (37%) e della crescita generalizzata dei prezzi (15%).

Secondo i dati dell’Osservatorio Turismo Nomisma, realizzato per conto di UniCredit, per 4 strutture su 10 la complessità operativa è dipesa anche dall’aumento dei tassi di interesse e dalla contrazione della domanda interna. Inoltre, il 14% delle strutture ha riscontrato difficoltà a trovare personale da assumere (+6% rispetto al 2022).
Ma gli investimenti e le strategie messi in campo dalle strutture ricettive nel biennio 2023-24 vanno nella direzione di aumentare la propria attrattività e rispondere alle nuove richieste del mercato.

Come continuare a garantire all’Italia un ruolo da protagonista?

Secondo Mattia Barchetti Head of Market Intelligence di Nomisma, “Continuare a investire per migliorare la propria attrattività rappresenta quindi un fattore discriminante per garantire all’Italia un ruolo da protagonista tra le mete di viaggio”.
In questo contesto, la sostenibilità ambientale è un driver strategico fondamentale per quasi 8 operatori turistici su 10. Questa nuova consapevolezza ha spinto le strutture ad adottare politiche e soluzioni sostenibili, riducendo l’impatto ambientale e incontrando la crescente domanda di turismo sostenibile.

Molti operatori hanno già intrapreso iniziative in questa direzione: il 72% ha fatto investimenti per la raccolta differenziata, la depurazione dell’acqua, la riduzione dei rifiuti e delle sostanze inquinanti, il 70% si è attivato per ridurre gli sprechi alimentari, il 66% ha adottato azioni di risparmio idrico ed energetico (51%).

Le attività messe in campo a favore della sostenibilità

Molte strutture ricettive dichiarano poi di avere in programma l’attivazione di una serie di attività a favore della sostenibilità ambientale, e 1 operatore su 4 manifesta l’intenzione a selezionare fornitori attenti ai temi sostenibili.
Gli operatori turistici stanno acquisendo una consapevolezza sempre più marcata riguardo all’interconnessione tra sostenibilità ambientale, crisi climatica e impatto diretto che queste dinamiche hanno sulla gestione delle strutture.

Il 66% degli operatori ha dovuto confrontarsi con gli effetti diretti e indiretti sulle attività aziendali, e in risposta all’urgente scenario climatico in evoluzione, hanno ritenuto indispensabile adottare misure proattive per affrontare gli imprevisti atmosferici. In particolare, circa 1 operatore turistico su 2 ha deciso di sottoscrivere una copertura assicurativa per eventi atmosferici.

…e quelle per acquisire maggiore attrattività

Tra le strategie adottate invece a favore di una maggiore attrattività 1 operatore su 4, ha scelto di puntare al rinnovo e all’ammodernamento della struttura mentre il 23% manifesta interesse a investire in impianti per la produzione di energia rinnovabile.

Seguono, le intenzioni di investimento nell’acquisto di nuove attrezzature (10%) e in attività e strumenti di marketing digitale (8%). Solamente il 18% non prevede di fare investimenti nel prossimo futuro.
In merito all’offerta, il 41% prevede un aumento dei prezzi di listino sia per i maggiori costi di gestione sia per la revisione o l’ampliamento dei servizi offerti ai clienti.

Perchè poche aziende italiane sfruttano il potenziale trasformativo del Purpose?

Il Purpose è il motivo alla base dell’esistenza di un’organizzazione, e la sua centralità negli ultimi anni ha assunto un ruolo sempre più rilevante da parte dei principali decisori economici, sociali e politici.
Ma com’è vissuto il Purpose nel nostro Paese? Quali sono i benefici attesi, i maggiori ostacoli per una sua piena attuazione, e i legami più forti con le trasformazioni di business?

Capire come le aziende stiano provando a ridefinire i propri meccanismi di funzionamento, e migliorare il rapporto con le comunità in cui operano, facendo proprio il motivo fondamentale per cui un’impresa esiste, è tra gli obiettivi ispiratori dello studio “Purpose & Business Transformation: the state of the art in Italy”, realizzato da BVA Doxa, BCG BrightHouse e Polimi Graduate School of Management.

Nei Servizi è più “chiaro” e rilevante

Il 70% dei C-Level e manager dichiara che la propria azienda ha un Purpose chiaro. Questo è vero soprattutto nel settore dei servizi (76%), ma in generale, l’interesse per il Purpose nei prossimi cinque anni è destinato a registrare un notevole aumento per il 69% degli intervistati.

Per il 62% degli intervistati (73% dei ceo) le aziende che implementano e vivono il Purpose riscontrano forti vantaggi nell’ottenimento degli obiettivi aziendali, per il 58% nell’esperienza quotidiana dei dipendenti e per il 57% nella costruzione della reputazione esterna dell’azienda.

Il potenziale del Purpose non è ancora pienamente sfruttato in Italia

Il 40% dei ceo e dei manager intervistati sostiene però che il Purpose non è pienamente sfruttato come risorsa nella propria azienda.
Inoltre, per il 60% dei ceo la sfida più grande è allineare i collaboratori con la leadership.

Ma se l’attenzione al Purpose è destinata a crescere nei prossimi cinque anni, così come gli investimenti e lo sforzo delle imprese, rispetto a una prima fase in cui i temi di identità e di valori sono stati percepiti soprattutto nella loro dimensione sociale, ora se ne colgono con maggior nitidezza i tratti strategici e il potenziale trasformativo.

Una sfida su cui si gioca il futuro e la credibilità delle imprese

Insomma, i tempi sono maturi affinché i leader e i board delle organizzazioni si riapproprino di Purpose e di identità, facendo spazio nelle loro agende e vivendolo come un esercizio autentico e rigoroso.

In un’epoca che vede mercato del lavoro, audience e stakeholder, sempre più esigenti e determinati nel loro ruolo di ‘forze attive’, sulla sfida del Purpose si gioca il futuro e la credibilità delle imprese, chiamate a dimostrare un impegno forte e coraggioso su questa tema.

La sostenibilità dei retailer Non Food: cosa ne pensano gli italiani?

Quanto soddisfatti gli italiani dell’offerta ‘green’ che trovano nei negozi? Come valutano se un prodotto Non Food è sostenibile? E quanto lo considerano nelle scelte d’acquisto?
Ma soprattutto, cosa deve fare un’azienda per essere considerata sostenibile?
A queste domande risponde l’ultima edizione dell’Osservatorio Non Food di GS1 Italy. La ricerca ha scoperto che gli italiani considerano sostenibile un’azienda quando realizza prodotti riciclabili/facilmente smaltibili (59,9%), utilizza energia da fonti rinnovabili (45,9%) e garantisce condizioni di lavoro e remunerazioni eque ai lavoratori (37,9%).
Inoltre, deve ottimizzare l’uso delle risorse ambientali durante la produzione (37,3%), che dev’essere a basso impatto ambientale (34,0%), con l’uso di packaging riciclabili/riciclati (32,2%).

Disposti a pagare di più, ma non per tutti i prodotti


Quando si tratta di scegliere quale prodotto sostenibile acquistare, gli italiani considerano soprattutto il ridotto consumo di risorse naturali e le basse emissioni durante il ciclo di produzione e distribuzione (39,3%), le modalità di smaltimento (38,4%), e la possibilità di riciclo/riuso del prodotto o dei suoi componenti (37,5%).
Quanto al fattore prezzo, circa 2 italiani su 3 si dichiarano disponibili a pagare di più per un prodotto sostenibile, ritenendo accettabile un incremento di prezzo del 5%-10% su quello standard, con picchi del 20% per bricolage (18,8%) ed elettronica di consumo (18,2%).
Al contrario, i prezzi più alti dei prodotti sostenibili diventano una barriera all’acquisto per alcuni comparti, quali casalinghi e tessile casa (39,9%), edutainment (39,7%), abbigliamento e calzature (37,2%).

Cosa rende virtuoso un negozio?

Guardando invece ai canali di acquisto, gli italiani che frequentano i punti vendita fisici sono mediamente soddisfatti dello spazio e dell’attenzione che i retailer dedicano ai temi della sostenibilità, ma con margini di miglioramento.
Il 54,9% degli intervistati dà una valutazione intermedia, e il 39,3% alta, ma i pareri sono molto diversi in base ai comparti e al canale considerato.
Ampio è anche il range dei fattori che rendono ‘virtuoso’ un negozio fisico sul fronte della sostenibilità.
Tra essi, in una visione trasversale alle categorie merceologiche, spiccano l’utilizzo di materiali riciclabili per shopper e imballaggi (36,6%), l’assortimento di prodotti pubblicizzati come a basso impatto ambientale (33,7%), la vendita di prodotti in materiale riciclato (28,4%), e il ritiro gratuito di prodotti usati da sostituire (26,5%).

Il problema delle etichette: informazioni poco chiare o insufficienti

Nei maggiori comparti merceologici analizzati dall’Osservatorio Non Food di GS1 Italy emerge, inoltre, l’esigenza degli italiani di ricevere più informazioni, e in modo più comprensibile e semplice, sulla sostenibilità dei prodotti.
Infatti, il 24% cerca sull’etichetta informazioni sulla sostenibilità, ma non le trova, e il 23% le ritiene poco chiare o comprensibili.
Per poter accedere alle informazioni sulla sostenibilità il metodo preferito è quello digitale, tramite QR Code o link al sito del produttore.

Come riconoscere un ambiente di lavoro tossico, e come difendersi

Spesso l’ambiente di lavoro è causa di un livello di stress tale da generare un impatto negativo su sé stessi e le persone che stanno intorno. L’ambiente di lavoro dovrebbe invece essere libero dal pregiudizio, dai giudizi e aperto alla crescita personale e professionale, e favorire produttività, serenità e maggiore creatività dei dipendenti.

In pratica, lavorare in un ambiente sano soddisfa il concetto di sicurezza psicologica che tutti vogliamo appagare.
Quando viene a mancare una sicurezza del genere, si parla di ambiente di lavoro tossico.
Ma come riconoscere un ambiente di lavoro tossico? Jobiri ha individuato alcuni segnali a cui prestare attenzione, nonché le azioni giuste per disinnescare una situazione negativa sul luogo di lavoro.

I 10 segnali della negatività

Mancanza di supporto, eccessivo carico di lavoro, elevato turnover del personale, leadership inadeguata e inefficiente, mancanza di equità, mobbing e atteggiamenti negativi, scarse opportunità di crescita, mancanza di comunicazione, disturbi di insonnia e stress eccessivo, conflitto con l’etica e i valori personali, e mancanza di fiducia tra e verso i dipendenti sono i 10 segnali individuati da Jobiri.
In particolare, la mancanza di fiducia tra e verso i dipendenti è un segnale evidente della presenza di un ambiente di lavoro tossico. Se c’è competizione, invidia, e in generale stati d’animo negativi, non ci potrà mai essere collaborazione, e fiducia nei confronti delle capacità e della professionalità degli altri. Lo stesso vale per il datore di lavoro che non si fida dei suoi collaboratori.

Comunicare sempre in modo aperto e rispettoso

Per affrontare un ambiente di lavoro negativo è anzitutto necessario parlare con i colleghi e il datore di lavoro in modo aperto e rispettoso.
Comunicare, secondo Jobiri, significa essenzialmente tentare di correggere i comportamenti negativi che stanno generando questa situazione.
Provare a restare in un ambiente lavorativo tossico non significa, infatti, accettare passivamente atteggiamenti deleteri, ma tentare piuttosto, nel proprio piccolo, di mettere in atto una serie di azioni positive.

Ad esempio, disinnescare i pettegolezzi, comunicare sempre con i colleghi e far notare loro quando pronunciano parole offensive o poco corrette, ascoltare e dare loro conforto, discutere con il capo riguardo esigenze e obiettivi senza timore.
Se necessario, far presente alle risorse umane la mancanza di politiche inclusive all’interno dell’organizzazione.

Il lavoro perfetto non esiste

Se anche dopo aver messo in pratica gran parte delle azioni consigliate la situazione non cambia né migliora, l’unica opzione da prendere in considerazione è quella di esplorare nuove opportunità di lavoro.

Ma, attenzione: trovare il lavoro perfetto non è sempre facile, e porta sempre con sé la paura della novità e del cambiamento.
Essere disposti a valutare compromessi, mettendo sul piatto della bilancia i pro e i contro è sicuramente il primo passo per prendere una decisione consapevole e serena.

Cresce l’offerta di lavoro, e diviene più mirata

Il mondo del lavoro in Italia si conferma dinamico e propositivo: nel primo semestre dell’anno sono quasi 200.000 le offerte di lavoro da parte delle aziende. Ma a crescere e a evolvere è anche il modo in cui le aziende cercano nuove risorse, con modalità sempre più legate alla ricerca proattiva e alla consultazione dei cv dei candidati. Lo rileva InfoJobs, che ha realizzato il nuovo Osservatorio InfoJobs sul mercato del lavoro, relativo al primo semestre 2023. E nei primi sei mesi dell’anno sono state oltre 1.600.000 le ricerche sulla piattaforma di professionisti da parte delle aziende, a prescindere dagli annunci pubblicati.

Oltre 60.000 CV scaricati

In generale, nei primi sei mesi dell’anno in corso, InfoJobs ha registrato un atteggiamento delle aziende sempre più propenso alla ricerca mirata di candidati nel database. Tanto che sono stati oltre 60.000 i cv scaricati (+23,7% vs 2022), e di conseguenza, i professionisti contattati direttamente dalle aziende dopo avere consultato la piattaforma scaricando i cv.
Una soluzione scelta dal +10,8% delle aziende rispetto allo stesso periodo dell’anno passato.
Tra le categorie professionali che hanno ricevuto maggior interesse da parte delle aziende al primo posto InfoJobs rileva Operai, Produzione, Qualità (16,4%), poi, Amministrazione, Contabilità, Segreteria (7,5%), Acquisti, Logistica, Magazzino (6,2%), Commercio al dettaglio, Gdo, Retail (5,1%), Informatica, It e Telecomunicazioni (4,7%).

Lombardia e Milano in cima alla classifica

In cima alla classifica delle regioni con maggior numero di offerte di lavoro svetta ancora una volta la Lombardia (31%), e confermate anche le medaglie d’argento per l’Emilia-Romagna (18%) e il bronzo per il Veneto (13,5%). Il Piemonte (9%) è stabile al quarto posto, mentre il Lazio è al quinto (6,2%).
A livello nazionale, dal punto di vista delle province Milano resta in testa (11,4%), Roma supera Torino (al terzo posto con il 5% del totale nazionale) e si posiziona al secondo posto (5,3%).
A emergere nella top 10 tra le province in crescita rispetto al 2022 è Treviso, che conquista l’ottavo posto (+3,4%) e raccoglie il 3% delle offerte nazionali.

I più cercati? Magazzinieri, addetti vendita, agenti di commercio

La categoria professionale più cercata si conferma quella che racchiude Operai, Produzione, Qualità (30,5%), seguita da Acquisti, Logistica, Magazzino (9%) a pari merito con Commercio al dettaglio, Gdo, Retail, Amministrazione Contabilità Segreteria (8,5%) al terzo posto.
Chiudono la top 5 Turismo e Ristorazione (5,9%), che denota la crescita maggiore (+7,5% rispetto al 2022).
Le categorie professionali si rispecchiano anche nel dettaglio delle professioni più cercate su InfoJobs in questi primi sei mesi dell’anno, che sono Magazziniere, Addetto vendita, Agente di commercio, Manutentore elettromeccanico, Operatore della produzione alimentare, Specialista di back office, Addetto pulizia camere, Operatore di macchine cnc, Addetto alla fatturazione e Assistente amministrativo.

Startup ESG: il profilo delle realtà italiane innovative e sostenibili

Negli ultimi tre anni la maggior parte degli investimenti europei sono stati destinati a fondi con etichetta Esg: attualmente superano i 4mila miliardi di dollari, corrispondenti a oltre un terzo del totale degli investimenti. L’ambiente, la responsabilità sociale e la governance aziendale, tematiche conosciute come Esg, conquistano sempre più spazio nei portafogli finanziari. In Italia, la maggioranza delle startup ‘Esg’ ha meno di dieci dipendenti, ma è già in grado di attrarre investimenti e operare anche a livello internazionale. È questo il profilo delle startup italiane attive in questo settore delineato da uno studio intitolato Sustainability waves – Esg italian startup, pubblicato da Cariplo Factory, con il patrocinio della Commissione Europea e il supporto di varie organizzazioni. 

Piccole, ma già mature per raccolta di capitali e parità di genere

Sono state coinvolte 115 aziende di piccole dimensioni (l’82% ha meno di dieci dipendenti), ma già in grado di attrarre investimenti e operare a livello nazionale (54%) e internazionale (40%). Oltre il 50% si colloca nella fascia più alta dell’indice Investment readiness level, che misura la maturità delle startup per la raccolta di capitali. Queste startup si pongono l’obiettivo di rendere il mondo un posto migliore, cercando di cambiare i paradigmi del mercato. Inoltre, sono caratterizzate da un forte impegno verso la parità di genere: il 60% di esse ha un consiglio di amministrazione a maggioranza femminile, mentre il 59% ha almeno il 50% dei dipendenti donne. Nel 28% dei casi, adottano il lavoro flessibile, mentre il 72% ha implementato programmi di welfare aziendale.

Dal rimboschimento ai biomateriali di origine vegetale

L’ambiente rappresenta una delle principali aree di interesse per queste startup: il 77% di esse ha attivato programmi di tutela o riduzione dell’impatto ambientale, che spaziano dalla gestione dei rifiuti al rispetto della biodiversità e all’uso sostenibile del territorio. Inoltre, riporta Adnkronos, il 55% dispone già di tecnologie per la riduzione dell’impronta ambientale. Nell’ambito delle startup sostenibili in Italia, esistono alcuni esempi significativi, come Alberea che combatte l’emergenza climatica con campagne di rimboschimento agricolo e urbano, oppure BioTextiles, specializzata nella creazione di biomateriali di origine vegetale a partire da un unico biopolimero, l’agar-agar.

Pannelli fotovoltaici come origami e piste ciclabili modulari

Sul fronte energetico, si distingue Levante, che ha progettato e brevettato un pannello fotovoltaico pieghevole, ispirato agli origami, per creare energia pulita grazie alle celle fotovoltaiche bifacciali.
Ripensare la mobilità urbana è invece l’obiettivo di Revo, che sviluppa piste ciclabili modulari, prefabbricate, realizzate in maniera ecosostenibile, e riposizionabili senza necessità di scavi e lavori stradali. Di fatto, possono essere posate su qualunque superficie esistente.

Lavoro: quali sono i benefit aziendali che attirano più talenti?

Sono tante le imprese che si scontrano con le crescenti difficoltà nel reperimento del personale. Secondo l’ultimo Bollettino predisposto dal Sistema informativo Excelsior Unioncamere, in collaborazione con ANPAL, si tratta di una difficoltà di reperimento pari al 66% per le figure dirigenziali e del 62% per gli operai specializzati. In una situazione come questa, le aziende si ‘contendono’ i pochi talenti disponibili, impegnandosi a offrire loro il migliore tra gli ambienti lavorativi. Ma quali sono gli elementi che vengono considerati più importanti dai candidati? Quali sono i fattori più attrattivi per chi sta cercando un nuovo lavoro, o per chi, pur non avendo avviato una ricerca attiva, è aperto a nuove opportunità professionali?

Non solo retribuzione

“Non si parla unicamente dello stipendio – spiega Carola Adami, fondatrice di Adami & Associati -. Anzi, esistono fattori che risultano importanti quanto e più della retribuzione, a partire, ad esempio, dall’atmosfera di lavoro, dalla flessibilità complessiva e dalla possibilità di avere un buon equilibrio tra vita lavorativa e vita privata”.
E poi ovviamente ci sono i benefit aziendali, ovvero, gli elementi sotto forma di beni o servizi che un’azienda fornisce ai propri dipendenti al di fuori del normale stipendio mensile, e che in quanto tali rientrano nel piano di welfare aziendale.

Employer branding ed employee retention

Per questo motivo, per attirare i talenti, diventa cruciale individuare i benefit aziendali più apprezzati dai lavoratori.
“In linea di massima è possibile affermare che ogni benefit, di qualsiasi natura, deve essere considerato come un elemento positivo in ottica di employer branding e di employee retention, soprattutto quando si parla dei millennials – puntualizza Carola Adami -. È da questo presupposto che bisogna partire per capire quali sono i benefit che in base al proprio budget e alle esigenze dei propri collaboratori attuali e potenziali, possono risultare più efficaci”.

Formazione e sviluppo, assistenza all’infanzia, prestazioni sanitarie

La scelta dei migliori benefit potrebbe quindi essere differente tra aziende di vario tipo o di vario settore, “in quanto ogni settore presenta le sue unicità, così come ogni azienda: il tipo di attività, l’età media dei collaboratori, la posizione geografica sono solamente alcuni fattori da prendere in considerazione – continua Adami -. Nonostante questo, le indagini fatte negli ultimi anni ci mostrano comunque che alcuni benefit aziendali in generale sono più efficaci e apprezzati, come le opportunità di formazione e di sviluppo, l’assistenza all’infanzia, le prestazioni sanitarie. Parliamo quindi, ad esempio, dei giorni di congedo ulteriori per maternità e paternità, dei bonus per asili nido e centri estivi, ma anche delle spese per i terapeuti”.

La mancanza di data maturity limita il successo delle organizzazioni

Un sondaggio globale di Hewlett Packard Enterprise condotto da YouGov mostra come la mancanza di data maturity ostacoli il settore privato e quello pubblico nel raggiungimento di obiettivi chiave.
Mentre i governi di tutto il mondo sottolineano l’importanza dei dati come risorsa strategica per guidare il progresso economico e sociale, il livello medio di data maturity delle organizzazioni, ovvero la loro capacità di creare valore dai dati, è di 2,6 punti su una scala di 5. Solo il 3% delle organizzazioni raggiunge il livello di maturità più elevato. In particolare, il 14% delle organizzazioni globali si trova al livello di maturità 1 (data anarchy), il 29% al livello 2 (data reporting), il 37% al livello 3 (data insights), il 17% al livello 4 (data centricity) e solo il 3% è al livello 5 (data economics).

Ostacoli al raggiungimento degli obiettivi chiave

In Italia, il 13% delle organizzazioni è data anarchy, il 31% data reporting, il 34% data insights, il 17% data centricity e il 4% data economy. La mancanza di capacità di gestione e valorizzazione dei dati, a sua volta, limita la capacità delle organizzazioni di raggiungere obiettivi chiave come l’aumento delle vendite (30%), l’innovazione (28%), il miglioramento della customer experience (24%), il miglioramento della sostenibilità ambientale (21%) e l’aumento dell’efficienza interna (21%).
Per quanto riguarda l’Italia, aumento delle vendite 34%, innovazione 32%, miglioramento della customer experience 23%, miglioramento della sostenibilità ambientale 17%, aumento dell’efficienza interna 20%.

Gap strategici, organizzativi e tecnologici

Solo il 13% degli intervistati afferma che la data strategy della propria organizzazione è una parte fondamentale della strategia aziendale, e quasi la metà (48%, Italia 33%) afferma che la propria organizzazione non alloca alcun budget per iniziative relative ai dati o finanzia solo occasionalmente iniziative relative ai dati tramite il budget IT. Inoltre, solo il 28% (Italia 29%) conferma che la propria organizzazione ha un focus strategico su prodotti o servizi data-driven. E per quasi la metà le proprie organizzazioni non utilizzano metodologie come il machine learning o il deep learning, ma si affidano a fogli di calcolo (29%, Italia 34%) o business intelligence e report preconfezionati (18%, Italia 15%) per l’analisi dei dati.

Il controllo su cloud ed edge

“A causa della massiccia crescita dei dati all’edge, le organizzazioni hanno bisogno di architetture ibride edge-to-cloud in cui il cloud arriva ai dati, non viceversa”, spiega Claudio Bassoli, Presidente e CEO di Hewlett Packard Enterprise Italia Bassoli.
Una caratteristica legata a un basso livello di data maturity è infatti che non esiste un’architettura globale di dati e analisi: i dati sono isolati in singole applicazioni o posizioni. Questo è il caso del 34% (Italia 39%) degli intervistati. D’altra parte, solo il 19% (Italia 14%) ha implementato un data hub o fabric centrale che fornisce accesso unificato ai dati in tempo reale in tutta l’organizzazione, e un altro 8% (Italia 13%) afferma che questo data hub include anche fonti di dati esterne.

Outsourcing: un mercato da 19 miliardi di euro

Oggi in Italia le imprese che gestiscono processi di outsourcing sono circa 30.000, con quasi 200.000 occupati, e un fatturato che si attesta sui 19 miliardi di euro, per un valore aggiunto di 9,4 miliardi.
È quanto emerge dal rapporto La seconda transizione dell’outsourcing, realizzato dal Censis in collaborazione con il Gruppo De Pasquale. Il report identifica le leve che possono portare l’esternalizzazione dei processi ad assumere anche il ruolo di motore della crescita e dell’innovazione nelle imprese, ed evidenzia le traiettorie che si stanno consolidando.

Un comparto in continua crescita

Il Censis ha elaborato una stima del valore del settore dell’outsourcing, inteso come l’insieme di attività e processi che le aziende o gli enti affidano a terze parti in base alle diverse strategie perseguite.  Il report conferma il percorso di crescita che in Italia sta interessando l’intero Business process outsourcing (Bpo). Nel confronto con i dati al 2016, già nel 2019 si registrava un aumento del 15,8% nel numero di imprese che gestiscono processi di outsourcing, una crescita dell’occupazione del 13,3% e un incremento del fatturato pari al 15,5%.

Più collaborazioni e più competenze

Si prospetta però un cambiamento di paradigma: le aziende che esternalizzano processi e servizi hanno maturato una maggiore consapevolezza in merito ai vantaggi che derivano dai meccanismi di integrazione, scambio, collaborazione, sia in un’ottica di espansione (outward looking) sia secondo una logica di ottimizzazione (inward looking).  La ricerca di nuovi mercati e nuovi clienti spinge la collaborazione tra le imprese. Questo, in particolare per il 38,7% delle imprese, cui fa seguito la necessità di contenere i costi (36,1%) e di sviluppare l’innovazione di processo o di prodotto (22,9%).
Il 20% delle aziende poi si concentra sulle partnership per acquisire nuove competenze e tecnologie, accrescere la flessibilità organizzativa e implementare strategie di internazionalizzazione.

Da un modello a scala ridotta a un ecosistema di imprese

Le relazioni fra le imprese, facilitate dalla digitalizzazione e da una competizione che si sposta dal livello di singola impresa e di singolo territorio al livello di ecosistema, riducono i condizionamenti della piccola dimensione d’impresa, e favoriscono la creazione di valore aggiunto su una scala più ampia. Questo elemento assume un’importanza decisiva a maggior ragione in Italia, vista la persistenza di modelli imprenditoriali a scala ridotta e la difficoltà di innalzare la dimensione media delle aziende. Fattori che rendono il sistema produttivo di beni e servizi estremamente frammentato, con oltre 4 milioni di imprese con meno di 10 addetti, e poco più di 4.000 che superano la soglia dei 250 addetti.