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La compravendita di auto usate genera 11,9 miliardi. Soprattutto online

Dopo il lockdown la ripartenza del settore auto passa anche per la Second Hand Economy, una forma di economia circolare sempre più rilevante. Tanto che la compravendita di veicoli usati nel nostro Paese ha generato un volume di affari pari a 11,9 miliardi di euro nel 2019. Quasi il 50% del valore totale stimato dell’economia dell’usato, che in Italia nel 2019 valeva 24 miliardi di euro, pari all’1,3% del Pil. E l’online gioca un ruolo di primo piano nella crescita dell’economia dell’usato. Lo rivela l’Osservatorio Second Hand Economy, condotto da BVA Doxa per Subito. E la ricerca ha evidenziato come proprio i “motori” giochino un ruolo fondamentale nel settore della compravendita dell’usato in Italia.

Il del 70% della crescita si deve al mercato online

“Si tratta di una grande opportunità per ripartire – dichiara Andrea Volontè, head of Automotive di Subito – tanto che sempre più operatori del settore chiedono a gran voce incentivi non solo sul nuovo, ma anche sull’usato ‘fresco’, che costituisce un’ottima opportunità per svecchiare il parco circolante e renderlo meno inquinante”.

Se nel 2019 il mondo dei veicoli ha generato un volume di affari online pari a 4,7 miliardi euro l’online gioca un ruolo decisivo nella crescita dell’economia dell’usato. Basti pensare che è responsabile del 70% della crescita assoluta anno su anno (700 milioni su 1 miliardo). Cresce infatti tra gli italiani soprattutto la ricerca di auto usate online, considerato non solo il punto di partenza, ma anche di arrivo per chi vuole acquistare o vendere una vettura.

Il 42% di chi ha comprato veicoli usati nel 2019 lo ha fatto sul web

In generale, il 42% di chi ha comprato veicoli usati nel 2019 dichiara di averlo fatto online, un dato in crescita rispetto al 2018 (37%). La preferenza è per auto e relativi accessori (pari merito al 17%), seguiti da moto e scooter (9%) e relativi accessori (5%), nautica, caravan e camper, veicoli commerciali. Il canale offline si ferma invece al 18%, in calo rispetto all’anno precedente (20%), riferisce Ansa. Per quanto riguarda la vendita, gli italiani vendono principalmente online veicoli per il 26% contro il 13% offline, con una preferenza per auto (11%) e relativi accessori (8%), moto e scooter (5%) e relativi accessori, caravan e camper, nautica.

Grazie all’usato i premium brand diventano accessibili

Tra le motivazioni principali che spingono alla ricerca di un’auto usata online rientrano l’immediatezza e la facilità di utilizzo del web, la possibilità di trovare in poco tempo quello che si sta cercando, e quella di avere accesso a un’offerta più ampia rispetto ai canali tradizionali. Ma anche la possibilità di trovare l’auto che si desidera a un prezzo competitivo, che vale non solo per le auto ‘entry level’, ma anche per i premium brand. Che grazie all’usato diventano più accessibili. Su Subito.it, ad esempio, BMW, Mercedes e Audi si confermano da anni i 3 brand più cercati dagli utenti.

Ministero delle Finanze, migliorano i tempi di pagamento delle PA

Ogni tanto c’è anche una buona notizia per le “tasche” di imprese e professionisti. Nello specifico, si accorciano sensibilmente i tempi di pagamento da parte delle PA, che sono scesi a 48 giorni nel 2019. A decretare questo miglioramento, dati alla mano, è il Ministero dell’Economia e delle Finanze attraverso un’analisi sui pagamenti delle fatture commerciali ricevute dalle PA nel quinquennio 2015-2019. Più nel dettaglio,  il tempo medio per il pagamento delle fatture da parte delle Pubbliche amministrazioni è sceso nel corso dell’anno passato a 48 giorni, dai 55 del 2018, con un ritardo medio di 1 giorno rispetto alla scadenza.

Le Pubbliche Amministrazioni hanno ricevuto fatture per 29,1 milioni di euro

Sulla base dei dati del sistema informativo della Piattaforma per i crediti commerciali (PCC) rilevati a maggio 2020, si legge nell’analisi del Mef, le fatture ricevute dalla PA nel 2019 sono state 29,1 milioni, per un importo totale dovuto di 148,2 miliardi. Le fatture pagate ammontano a 24,5 milioni, pari a 140,4 miliardi di euro, che corrisponde a circa il 94,8% dell’importo totale.

“Anche tenendo conto delle code dei pagamenti non ancora effettuati al momento della rilevazione (che potrebbero far rivedere al rialzo la serie di dati), il tempo medio ponderato occorso per saldare le fatture del 2019 è pari a 48 giorni, a cui corrisponde un ritardo medio di 1 giorno rispetto alla scadenza” precisa il Ministero dell’Economia e delle Finanze in una nota.

Un trend in continuo miglioramento

Per fortuna, non si tratterebbe di una buona pratica temporanea. I tempi di pagamento delle fatture emesse nel 2019 (48 giorni), prosegue il Ministero, confermano il trend decrescente del quadriennio precedente, in cui il tempo medio di pagamento era già sceso dai 74 giorni del 2015 fino ai 55 del 2018. Corrispondentemente, il tempo medio di ritardo (un giorno nel 2019) si era già ridotto da 27 giorni del 2015 a 7 del 2018. L’incremento delle fatture pagate nei tempi previsti risulta particolarmente importante per gli Enti del SSN, la cui percentuale, calcolata in termini di importo, passa dal 50,5% del 2015 al 77,1% del 2019. La performance migliore è fatta registrare dal comparto delle Regioni e Province autonome, con una percentuale del 77,8% nel 2019.

Conti saldati nei termini previsti dalla normativa comunitaria e nazionale

Con la riduzione dei tempi di pagamento, aumenta in parallelo anche la quota di fatture saldate dalle Pubbliche Amministrazioni entro i termini previsti dalla normativa comunitaria e nazionale. Le percentuali, calcolate in termini di importo, passano dal 53,3%, per le fatture emesse nel 2015, al 64,8% per quelle del 2018 e al 69% per quelle del 2019.

Nel mese di aprile più di 772 milioni di ore di cassa integrazione

Durante il mese di aprile 2020 il numero di ore di cassa integrazione complessivamente autorizzate, esclusi i fondi di solidarietà, è stato pari a 772,3 milioni, pari al 2.953,6% in più rispetto allo stesso mese del 2019, che registrava un numero di ore pari a 25,3 milioni. Una differenza esorbitante, che non lascia spazio a dubbi circa l’entità della crisi economica sopraggiunta in relazione alle misure adottate dal Governo per contenere la pandemia da Covid-19. I dati sono stati comunicati dall’Inps, e sono contenuti nel suo Osservatorio sulla Cassa integrazione guadagni (Cig), il quale indica come nel mese di aprile 2020 il 98% delle ore di cassa integrazione ordinaria e deroga siano state autorizzate con la causale “emergenza sanitaria Covid-19”.

Boom della cassa ordinaria e in deroga legato all’emergenza Covid-19

Secondo l’Osservatorio Cig, quindi, emerge il boom della cassa ordinaria (+9.509%) e di quella in deroga (+239.056%) legate all’emergenza Covid-19, e un calo della straordinaria (-30,3%). Più in particolare, riporta l’Ansa, il numero di ore di cassa integrazione straordinaria autorizzate ad aprile 2020 è stato pari a 12,4 milioni, di cui 2,3 milioni per solidarietà, registrando un decremento rispetto allo stesso mese dell’anno precedente, che registrava 17,9 milioni di ore autorizzate. Nel mese di aprile 2020 rispetto al mese precedente si registra una variazione congiunturale pari al +71,6%.

Un’enorme entità di ore anche rispetto a marzo 2020

Più in dettaglio, nel settore industria sono state autorizzate 605,2 milioni di ore, contro i 5,7 milioni di ore di aprile 2019, e nel settore edilizia 107,8 milioni di ore, contro 1,8 milioni di ore di aprile 2019. Secondo l’osservatorio Inps, inoltre, le ore autorizzate nel mese di aprile 2020 risultano di enorme entità anche rispetto a quanto registrato nel mese precedente, dove risultavano autorizzate 12,7 milioni di ore, riporta Adnkronos.

Da gennaio-aprile 2020 le ore autorizzate volano a 834,8 milioni

Per quanto riguarda gli interventi in deroga, sempre ad aprile 2020, sono stati pari a 46,9 milioni di ore autorizzate. Nello stesso mese dell’anno scorso erano state autorizzate solo 20 mila ore, e con riferimento al mese precedente, cioè a marzo 2020, le ore autorizzate risultavano di entità ancora inferiore, pari a 2 mila ore circa. Ma l’impennata del mese di aprile fa schizzare in alto anche i valori cumulati dei primi quattro mesi del 2020. Nel periodo gennaio-aprile 2020, infatti, le ore di Cig autorizzate dall’Inps volano a 834,8 milioni, l’815,74% in più rispetto alle 91 milioni di ore di gennaio-aprile 2019, conferma il Sole 24 Ore.

Fase 2, gli over 50 tornano al lavoro più dei giovani

Secondo quanto stabilito dal Dpcm del 26 aprile dal 4 maggio 4,4 milioni di italiani hanno ripreso la propria attività lavorativa, mentre 2,7 milioni continuano a restare a casa in attesa di misure governative successive. Secondo l’indagine della Fondazione studi consulenti del lavoro dal titolo Ritorno al lavoro per 4,4 milioni di italiani. Al Nord prima che al Sud, anziani più dei giovani, su 100 lavoratori rimasti a casa il 62,2% è potuto tornare al lavoro. Ma la ripresa coinvolge soprattutto lavoratori over 50, rispetto ai giovani, interessando maggiormente il Nord Italia e favorendo i lavoratori dipendenti a discapito degli autonomi.

Il 74,8% del totale sono uomini

La ripresa, sottolinea la ricerca, interessa principalmente i lavoratori dell’industria, dove l’attività potrà ritornare a pieno regime (100% dei settori riaperti). Su 100 lavoratori rientrati al lavoro il 60,7% è occupato nel settore manifatturiero, il 15,1% nelle costruzioni, il 12,7% nel commercio e l’11,4% in altre attività di servizio. E a tornare al lavoro è principalmente la componente maschile, più presente in questo comparto, che riguarda 3,3 milioni di uomini, il 74,8% del totale, e “solo” 1,1 milioni di donne (25,2%). In generale, si tratta soprattutto di lavoratori dipendenti (3,5 milioni, il 79,4% di chi ha ripreso a lavorare) mentre gli autonomi (20,6%) dovranno ancora aspettare. Solo il 49% di loro ha potuto riaprire già dal 4 maggio.

La ripresa si concentra proprio nelle aree più interessate dal virus

Tra i paradossi legati alla riapertura delle attività produttive, nonostante il dibattito nazionale sull’opportunità di prevedere rientri differenziati per tutelare la popolazione, c’è l’aspetto legato all’età dei lavoratori coinvolti. Gli over 50 infatti riprendono a lavorare prima dei giovani. Su 100 occupati in settori “sospesi” a rientrare sono il 68,7% dei 50-59enni, il 67,1% dei 40-49enni, il 59% dei 30-39enni e il 48,8% degli under 30. Ed è alta anche la percentuale degli over 60, pari al 60,1% di quanti sono rimasti a casa per effetto del blocco.

Inoltre, anche la settorialità delle aperture delinea un quadro non coerente rispetto alla diffusione della pandemia. La ripresa, infatti, si concentra proprio nelle aree più interessate dal virus.

Solo il 36,6% resta in smart working

A fronte di 2,8 milioni di lavoratori al Nord Italia sono 812mila al Centro e 822mila al Sud. Tra le regioni interessate Emilia-Romagna, Piemonte, Veneto, Marche e Lombardia, dove il tasso di rientro oscilla intorno al 69%. Mentre in Val d’Aosta (49,3%), Lazio (46,7%), Sicilia (43,4%), Calabria (42,5%) e Sardegna (39,2%), la ripresa interessa meno di un lavoratore su due tra quelli “sospesi”. Ovviamente la riapertura dei settori non comporta necessariamente la presenza in sede dei lavoratori. Secondo le indicazioni ribadite nei provvedimenti governativi il lavoro agile deve essere mantenuto quanto possibile, riporta Adnkronos. Tuttavia, solo il 36,6% dei lavoratori chiamati a riprendere l’attività può farlo in smart working. Il 63,4%, per le caratteristiche del proprio lavoro, non potrà che recarsi in sede.

Pandemia e recessione, per gli AD è necessario accelerare la trasformazione digitale

La pandemia di coronavirus sta causando una recessione economica a livello mondiale, ma gli amministratori delegati dei diversi settori economici dovrebbero agire subito, e non aspettare, a pianificare, ottimizzare e accelerare la trasformazione digitale. Si tratta della ricetta di Bain & Company, la società globale di consulenza strategica, che ha delineato alcune raccomandazioni pratiche che i Ceo dovrebbero seguire. “È difficile – spiega Bain – definire quale e di che portata sarà l’impatto economico della pandemia, anche se è chiaro che l’effetto recessione globale sarà strettamente legato alla sua evoluzione in termini sia temporali che geografici. Abbiamo comunque cominciato a vederne l’effetto sui listini azionari – aggiunge Bain – che complessivamente hanno perso più del 30% nelle ultime settimane”.

Cala il grado di fiducia da parte dei consumatori, anche in Italia

Al clima di estrema incertezza, continua Bain, “contribuiscono anche le reazioni non sempre coordinate delle banche centrali per fronteggiare le implicazioni economiche. Quello che è certo, a oggi, è un calo nel grado di fiducia dei consumatori, già in flessione del 3-4% in Paesi come Usa, Francia e Gran Bretagna, e dell’11% in Giappone”.

Secondo la società di consulenza è infatti ormai chiaro che il coronavirus avrà un impatto significativo, seppur differenziato per settori, anche sull’economia italiana, riporta Aaskanews

“Un approccio wait-and-see spesso è la scelta peggiore in tempi incerti”

“Nonostante non si possa prevedere precisamente l’entità degli impatti a livello sanitario ed economico del coronavirus in Italia e nel mondo – sostiene Roberto Prioreschi, managing director di Bain & Company per Italia, Grecia e Turchia – l’esperienza di Bain dimostra che per le aziende un approccio ‘wait-and-see’ è spesso la scelta peggiore in tempi incerti”.

Dato il livello di incertezza, i normali scenari economici sono insufficienti, e la situazione richiede un nuovo approccio alla pianificazione, specifico per ogni business.

Secondo Prioreschi, “c’è un elemento in comune, però: attendere non è un’opzione e le aziende con una miglior capacità di recovery e mitigazione degli effetti negativi della crisi saranno quelle che agiranno immediatamente, adottando in anticipo misure preventive e seguendo una serie di best practice nel breve e nel medio-lungo termine”.

Adottare un approccio da war room e intraprendere la digital transformation

“Oltre alla protezione delle persone – puntualizza il managing director – che è in assoluto e per tutte le aziende l’obiettivo prioritario, la nostra raccomandazione si può sintetizzare in tre concetti: adottare un approccio da war room, analizzare e ottimizzare production & supply chain e intraprendere o accelerare la digital transformation, nella forma più consona al proprio business”.

Risorse Umane, come cambia la figura del recruiter: servono skills digitali e di marketing

Risorse umane, si cambia prospettiva e modalità di azione. Già, perché sono sempre di più i candidati che scelgono le aziende e non viceversa. Il dato emerge da un’indagine condotta da R-Everse, azienda italiana di ricerca e selezione del personale, presso un campione di aziende composto da 50 realtà di medie e grandi dimensioni. Il report parla di un vero e proprio stravolgimento nel settore del recruiting: oggi chi ricopre il ruolo di responsabile delle Risorse Umane (HR) deve possedere necessariamente ulteriori competenze, a partire da quelle di marketing. Infatti, è sempre più frequente dover adottare delle strategie di marketing per attirare il candidato. A iniziare dalla job description, fino al piano di comunicazione sui vari canali attraverso i quali inviare il messaggio: social media, sito internet, testate giornalistiche, etc. Ogni messaggio va studiato secondo la tipologia di canale usato, va pianificato e programmato secondo un progetto di comunicazione ben strutturato. Sono lontani, insomma, i tempi in cui bastava un annuncio e attendere le risposte dei potenziali candidati.

Il ruolo strategico della brand awareness nell’attrarre talenti

Le persone in cerca di lavoro hanno maggiori probabilità di candidarsi in aziende con una presenza online coinvolgente e attiva rispetto a quelle con una presenza online stantia o inesistente. “Un marchio aziendale ha molte caratteristiche umane: una personalità, un’identità, un modo di comunicare e comportarsi. E come i clienti oggi non comprano un prodotto ma la storia sottostante, l’esperienza che quel prodotto porta con sè, così le persone in cerca di lavoro vogliono qualcosa con cui potersi relazionare e di cui ​desiderare di far parte​” spiega il commento all’indagine. “I dipendenti non dovranno essere nominati brand ambassador. I dipendenti si sentiranno brand ambassador” ha detto Marco Russomando, HR Director di iIlimity, la start-up bancaria specializzata nel supporto alle PMI, coinvolta nel report.  Anche l’Osservatorio HR Innovation Practice del Politecnico di Milano conferma il trend con le sue ricerche: l’ambito su cui le aziende italiane stanno investendo di più è quello dell’Employer Branding (in crescita per il 45% delle organizzazioni coinvolte nella ricerca), insieme alle iniziative digitali per la formazione e sviluppo (58%).

Le aziende cercano profili professionali qualificati

Il Rapporto Excelsior 2018 di Unioncamere e Anpal rileva un aumento del fabbisogno di dirigenti, specialisti e tecnici, che raggiunge il 19% del totale delle entrate: per le imprese, quasi 6 su 10, è difficile trovare professioni come analisti e progettisti di software, agenti assicurativi, elettrotecnici. Il rapporto evidenzia il gap tra la domanda di lavoro espressa dalle imprese dell’industria e dei servizi e l’offerta presente sul mercato. Un disallineamento che nel 2018 ha riguardato il 26% degli oltre 4,5 milioni di contratti di lavoro che il sistema produttivo aveva intenzione di stipulare, 5 punti percentuali in più del 2017.

Cambia il codice della strada, ma attenzione a sicurezza e controlli

Sospensione della patente per chi parla al cellulare al volante, limite della velocità mantenuto a 130 km orari, via libera ai motocicli di cilindrata 125 in autostrada e alla circolazione contromano delle biciclette: ecco come cambia il codice della strada. E ad accogliere favorevolmente le nuove modifiche è Giordano Biserni, il presidente dell’Asaps, l’Associazione Sostenitori Amici Polizia Stradale. Che però sottolinea la necessità di mantenere alta l’attenzione alla sicurezza, e di non abbassare il livello dei controlli.

“Avviare percorsi formativi per le future patenti A”

“Possiamo essere d’accordo ai motocicli 125 in autostrada, ma va posta grande attenzione al fatto che si troverebbero a viaggiare sulla destra e si troverebbero per così dire a competere con i pullman e alcuni mezzi pesanti che viaggiano tra gli 80 e 100 km orari – spiega all’AdnKronos Biserni – e un eventuale sorpasso a opera del mezzo pesante può essere molto pericoloso”. Questa norma richiede quindi una particolare attenzione, e i conducenti devono essere esperti e ben preparati. A tal proposito, continua Biserni, “potrebbe essere utile avviare adeguati percorsi formativi per le future patenti”.

Bici contromano, una misura che va sperimentata

“In merito al mantenimento della velocità a 130 km orari siamo soddisfatti: più sale la velocità consentita più aumentano i consumi, l’inquinamento e i rischi di incidenti – dichiara ancora Biserni -. Saremmo poi l’unico paese al mondo che aumenta i limiti”.

Per quanto riguarda la misura che regola la possibilità per le biciclette di viaggiare contromano Biserni è del parere che debba essere sperimentata prima di renderla operativa.

“Noi siamo favorevoli all’uso delle biciclette sempre: sono il mezzo più ecologico e salutare che esista – aggiunge Biserni -. Ma ogni città ha una fisionomia e densità di velocipedi molto diverse e non si possono attuare norme uguali per tutti “.

Maggiore presenza di pattuglie della polizia per strada

Per i mezzi pesanti Biserni chiede “una maggiore attenzione per gli sforamenti dei tempi di guida e riposo dei conducenti, con un richiamo puntuale alla responsabilità delle aziende, che spesso non solo li tollerano, ma li esigono pena il licenziamento. Auspicabile anche un sistema di controlli alle aziende che attivano concorrenze sleali con conducenti anche stranieri.

Molto positive, secondo il presidente Asaps, anche le norme sull’uso dei cellulari alla guida, con la sospensione della patente alla prima violazione. Devono però essere attuati anche controlli in merito alle violazioni di elevato rischio per la vita, come l’uso di alcol e droga alla guida o la mancanza di cinture di sicurezza. “Serve perciò una maggiore presenza di pattuglie di polizia per strada, anche su provinciali e statali – puntualizza Biserni – altrimenti tutto quello che si scrive nella riforma sarà come scritto sulla sabbia”.

Innovazione tecnologica, un potenziale di crescita per l’Italia

Il mercato italiano del digitale è in crescita, e nel 2017 segna un +2,3% e un valore di oltre 1,5 miliardi di euro. Tra 480mila smart worker, 46 miliardi di “new” digital payment, 1,24 miliardi il valore dei servizi in cloud, una crescita per il mobile advertising del 49%, e 6 milioni di carte d’identità digitali, l’innovazione tecnologica non si arresta. Ma nonostante i segni “più” in settori come finanza, sanità (+1,3 miliardi con oltre 47 milioni investiti in cartella clinica elettronica) e servizi, l’Italia deve fare ancora molta strada. Basti pensare al potenziale di crescita delle Pmi, che oggi investono meno dell’1% del loro fatturato in progetti per la digitalizzazione.

Individuare le aree prioritarie d’intervento

L’Italia risulta in ritardo rispetto ai principali paesi europei, con livelli di Venture Capital e R&D sul Pil inferiori a Francia, Germania e Regno Unito. Per individuare gli interventi che consentano di accelerare i processi di trasformazione digitale nasce ITA.NEXT, l’iniziativa promossa da TeamSystem, in collaborazione con Intesa Sanpaolo, Microsoft, Nexi e TIM, insieme ai knowledge partner McKinsey & Company e Politecnico di Milano.

Tra le aree prioritarie d’intervento ITA.NEXT individua la digitalizzazione dei processi di gestione aziendale e finanziaria, logistica e ciclo d’ordine digitale, Internet of things, AI e big data. Ma anche blockchain, turismo digitale, ed e-commerce in un mercato b2b e b2c.

Fattura elettronica, 72-75 miliardi risparmiati

“I grandi player del settore sono pronti a lavorare insieme al decisore politico per fornire strumenti concreti e utili agli imprenditori e ai professionisti”, spiega Federico Leproux, AD TeamSystem. L’obiettivo è superare le barriere culturali e operative che frenano la digitalizzazione delle aziende italiane, come la carenza di competenze digitali e l’interoperabilità delle procedure cliente-fornitore. “La fattura elettronica – sottolinea Leproux – rappresenta in questa sfida una grande opportunità, perché può essere trasformata da semplice adempimento a strumento a supporto dell’intero processo di trasformazione digitale”. E potrebbe far risparmiare al Paese tra i 72 e i 75 miliardi di euro, che in termini di percentuale sul Pil significano un impatto tra lo 0,6% e il 3,7%.

La politica deve aiutare le imprese a non subire la trasformazione digitale

Se la vera rivoluzione della PA sarà quella del digitale, “La digitalizzazione del comparto industriale è un tema tanto delicato quanto sfidante – afferma Gianni Pietro Girotto, Presidente della commissione Industria, commercio e turismo del Senato – ma strategico per aumentare la competitività delle nostre imprese”. La politica deve quindi aiutare le imprese a non subire le trasformazioni anticipandole. La Legge di Bilancio pertanto conferma le misure su Impresa 4.0, e prevede un fondo di 15 milioni di euro l’anno fino al 2021 per favorire la sperimentazione sulle tecnologie emergenti. Oltre a un voucher fino a 40mila euro a favore delle Pmi, per poter impostare la trasformazione dei processi produttivi attraverso il digitale.

Lavoro nero e illegale uguale il 12% del Pil

Brutto primato – purtroppo tutto in negativo – per l’economia italiana. Come indica una recente rilevazione curata dall’Istat, il cosiddetto “nero” nel Belpaese vale l’importo monstre di 210 miliardi di euro. Una cifra che rappresenta addirittura il 12,4% del Pil. Entrando nel merito delle cifre, il valore aggiunto generato dall’economia sommersa ammonta a poco meno di 192 miliardi di euro, quello connesso alle attività illegali (incluso l’indotto) a circa 18 miliardi di euro. Nel 2016 la componente relativa alla sotto-dichiarazione pesava per il 45,5% del valore aggiunto (circa -0,6 punti percentuali rispetto al 2015). La restante parte era invece attribuibile per il 37,2% all’impiego di lavoro irregolare, per l’8,8% alle altre componenti (affitti in nero, mance) e per l’8,6% alle attività illegali.

I settori dove c’è più nero

Commercio, trasporti, alloggio e ristorazione (23,7%) e le costruzioni (22,7%) si confermano i settori dove l’economia sommersa è maggiormente presente. Ma, oltre a questi macrocomparti, il sommerso coinvolge poi tutte le aree delle sotto-dichiarazioni: Servizi professionali (16,3%), Commercio, Trasporti, alloggio e ristorazione (12,4%), Costruzioni (11,9%). Ma risulta pesantemente invischiato nel fenomeno anche il manifatturiero, soprattutto quello dedicato alla Produzione di beni alimentari e di consumo (7,5%). Il settore più colpito dall’impiego di lavoro irregolare è infine quello domestico o che riguarda agricoltura e pesca.

Un problema gravissimo per l’Italia e le casse dello Stato

Il lavoro nero, purtroppo, si conferma come uno dei più grandi problemi per l’Italia e le casse dello Stato. Come evidenziano i dati diffusi dall’Istat, è questo un fenomeno che produce un “buco” di circa 20 miliardi di euro per l’erario. Nel 2016, l’elenco degli irregolari raggiungeva i 3 milioni 701 mila, in prevalenza dipendenti (2 milioni 632 mila), un numero in lieve diminuzione rispetto al 2015 (rispettivamente -23 mila e -19 mila unità). L’incidenza del lavoro irregolare è particolarmente rilevante nel settore dei Servizi alle persone (47,2% nel 2016, in calo di 0,4 punti percentuali rispetto al 2015) ma risulta significativo anche nei comparti dell’Agricoltura (18,6%), delle Costruzioni (16,6%) e del Commercio, trasporti, alloggio e ristorazione (16,2%).

Le attività illegali “valgono” 18 miliardi di euro

Il peso economico dell’illegalità nella compilazione dei conti nazionali, conclude l’Istat, equivale a poco meno di 18 miliardi di euro di valore aggiunto (compreso l’indotto) con un aumento di 0,8 miliardi, sostanzialmente riconducibile alla dinamica dei prezzi relativi al traffico di stupefacenti. Non c’è davvero motivo di essere fieri di questo business.

Intelligence economica: la strategia per i manager 4.0

L’intelligence economica è lo strumento strategico per i manager 4.0. Se è vero che l’Italia è tra i paesi che dispongono di uno strumento di screening degli investimenti esteri come “golden power”, diventa determinante “avere un sistema di intelligence economica efficiente e strutturato come strumento strategico di gestione”, spiega Giacomo Gargano, presidente Federmanager Roma. Un sistema che consenta di raccogliere dati e informazioni al fine di individuare le opportunità, e le minacce, per lo sviluppo del business.

Le Pmi non ne riconoscono ancora il ruolo strategico

Molte Pmi, però, non riconoscono ancora il ruolo strategico dell’intelligence economica, la cui funzione è quella di incrociare dati e informazioni, analizzarli e trasformarli in decisioni pertinenti e strategiche. Per aiutare le Pmi Federmanager e Confindustria hanno individuato le competenze necessarie per sostenerne la crescita, specie digitale, tramite “un progetto di formazione pensato dai manager per i manager”, aggiunge Gargano. Finora sono stati certificati 208 dirigenti, con attenzione particolare su quattro figure chiave, innovation manager, temporary manager, manager di rete ed export manager, riferisce Adnkronos.

Uno strumento essenziale per manager e politici

“Oggi manager e politici hanno una funzione comune: quella di essere capaci di trasformare le conoscenze in azione concreta”, sostiene Gian Paolo Manzella, assessore Sviluppo economico, commercio e artigianato, start-up, Lazio creativo e innovazione della Regione Lazio. Per questo motivo è stato istituito il Consiglio delle imprese internazionali del Lazio, un organismo “che ha il compito di aiutarci a fare politiche più moderne, più innovative e più capaci di attrarre investitori verso il nostro territorio”, aggiunge Manzella.

Una banca dati digitale per gli imprenditori

“Rispetto al resto dell’Europa il gap delle imprese non è solo tecnologico, ma culturale”, afferma Paolo Ghezzi, direttore generale di Infocamere. A questo proposito “Stiamo creando una banca dati, il cosiddetto digitale dell’imprenditore, un patrimonio informativo a portata di tutti, anche in mobilità”, spiega Ghezzi. Qualche numero? In Italia le start up sono 9.225, nel Lazio 954 e nella provincia di Roma 843, mentre le Pmi innovative in Italia sono 802, nel Lazio 70 e 63 in provincia di Roma.

“I nostri manager sono la leva più importante per attrarre capitali stranieri e per far volare il business all’estero”, chiarisce Stefano Cuzzilla, presidente Federmanager. L’Associazione quindi “sta irrobustendo i servizi che possono agevolare la managerializzazione delle Pmi – sottolinea Cuzzilla – affinché questa leva sia utilizzata come concreta opportunità di sviluppo del sistema”.