La mancanza di data maturity limita il successo delle organizzazioni

Un sondaggio globale di Hewlett Packard Enterprise condotto da YouGov mostra come la mancanza di data maturity ostacoli il settore privato e quello pubblico nel raggiungimento di obiettivi chiave.
Mentre i governi di tutto il mondo sottolineano l’importanza dei dati come risorsa strategica per guidare il progresso economico e sociale, il livello medio di data maturity delle organizzazioni, ovvero la loro capacità di creare valore dai dati, è di 2,6 punti su una scala di 5. Solo il 3% delle organizzazioni raggiunge il livello di maturità più elevato. In particolare, il 14% delle organizzazioni globali si trova al livello di maturità 1 (data anarchy), il 29% al livello 2 (data reporting), il 37% al livello 3 (data insights), il 17% al livello 4 (data centricity) e solo il 3% è al livello 5 (data economics).

Ostacoli al raggiungimento degli obiettivi chiave

In Italia, il 13% delle organizzazioni è data anarchy, il 31% data reporting, il 34% data insights, il 17% data centricity e il 4% data economy. La mancanza di capacità di gestione e valorizzazione dei dati, a sua volta, limita la capacità delle organizzazioni di raggiungere obiettivi chiave come l’aumento delle vendite (30%), l’innovazione (28%), il miglioramento della customer experience (24%), il miglioramento della sostenibilità ambientale (21%) e l’aumento dell’efficienza interna (21%).
Per quanto riguarda l’Italia, aumento delle vendite 34%, innovazione 32%, miglioramento della customer experience 23%, miglioramento della sostenibilità ambientale 17%, aumento dell’efficienza interna 20%.

Gap strategici, organizzativi e tecnologici

Solo il 13% degli intervistati afferma che la data strategy della propria organizzazione è una parte fondamentale della strategia aziendale, e quasi la metà (48%, Italia 33%) afferma che la propria organizzazione non alloca alcun budget per iniziative relative ai dati o finanzia solo occasionalmente iniziative relative ai dati tramite il budget IT. Inoltre, solo il 28% (Italia 29%) conferma che la propria organizzazione ha un focus strategico su prodotti o servizi data-driven. E per quasi la metà le proprie organizzazioni non utilizzano metodologie come il machine learning o il deep learning, ma si affidano a fogli di calcolo (29%, Italia 34%) o business intelligence e report preconfezionati (18%, Italia 15%) per l’analisi dei dati.

Il controllo su cloud ed edge

“A causa della massiccia crescita dei dati all’edge, le organizzazioni hanno bisogno di architetture ibride edge-to-cloud in cui il cloud arriva ai dati, non viceversa”, spiega Claudio Bassoli, Presidente e CEO di Hewlett Packard Enterprise Italia Bassoli.
Una caratteristica legata a un basso livello di data maturity è infatti che non esiste un’architettura globale di dati e analisi: i dati sono isolati in singole applicazioni o posizioni. Questo è il caso del 34% (Italia 39%) degli intervistati. D’altra parte, solo il 19% (Italia 14%) ha implementato un data hub o fabric centrale che fornisce accesso unificato ai dati in tempo reale in tutta l’organizzazione, e un altro 8% (Italia 13%) afferma che questo data hub include anche fonti di dati esterne.

Dichiarazione dei redditi: è all’insegna di quote azzurre e Millennial

Quest’anno la maggior parte degli italiani ha presentato la dichiarazione dei redditi già nei mesi di aprile, maggio e giugno (60%). È quanto emerge da un’analisi di Taxfix, l’app che rende più agevole la dichiarazione dei redditi online. Meno italiani (14%) hanno invece utilizzato la piattaforma a settembre, ultimo mese utile, e la maggior parte di chi ha aspettato a settembre (73%) ha presentato la dichiarazione negli ultimi 15 giorni del mese. Secondo i dati di Taxfix, poi, la maggioranza degli utenti che hanno usufruito dell’app sono uomini (63,5%) rispetto al 36,5% delle utenti donne. Emerge poi una predominanza di Millennial, ovvero nella fascia di età compresa tra 26-35 anni.

Ancora molto forte il gender pay gap

Le fasce di reddito più elevate sono rappresentate principalmente dagli uomini. In particolare, con l’aumentare del reddito, aumenta la disparità, partendo dal 71% di uomini contro il 29% delle donne nella fascia dai 20mila ai 30mila euro fino ad arrivare all’86% di uomini rispetto al 14% di donne nella fascia tra i 60mila e i 70mila euro. La maggior parte dei dichiaranti poi (69%) è andata a credito. Per quanto riguarda invece la distribuzione geografica degli utenti, tra le regioni più aperte a utilizzare le nuove tecnologie, anche in ambito fiscale, svettano Lombardia (29%), Emilia Romagna (12%) e Veneto (13%). Fanalini di coda, Valle D’Aosta, Molise e Basilicata.

La top 5 delle spese detraibili meno note

Dai dati elaborati da Taxfix emergono aspetti curiosi relativi alle spese dichiarate. Da quelle più note, che risultano essere le più detratte, come le spese mediche, posizionate al primo posto (60%), quelle per l’affitto (32%) e quelle relative alla detrazione degli interessi del mutuo (14%), ad altre più sorprendenti.
La top 5 delle spese meno note, riferite Askanews,  si apre infatti con le spese funebri: è infatti possibile portare in detrazione le spese sostenute per un funerale e la sepoltura di qualcuno, richiedendo una riduzione dell’Irpef pari al 19% della somma pagata, nel limite di 1.550 euro per ciascun decesso.

Spese musicali, sportive e donazioni

Al secondo e terzo posto si collocano rispettivamente le spese musicali e quelle sportive. Per quanto riguarda le prime si tratta di una detrazione pari al 19% delle spese sostenute per l’iscrizione di bambini e ragazzi tra 5-18 anni a scuole di musica o conservatori. Anche per le spese sportive la detrazione è pari al 19%, e riguarda le spese sostenute per le attività sportive praticate da ragazzi e ragazze tra 5-18 anni presso associazioni sportive e impianti sportivi. Al quarto posto si posizionano le donazioni nei confronti di Onlus, università e scuole, ricerca, sport o chiese, e al quinto il bonus vacanze. Un beneficio che spettava all’80% in forma di sconto sull’importo dovuto al fornitore, e per il restante 20% sotto forma di detrazione d’imposta.

Quali saranno i superfood del 2023?

Ogni anno, puntuale come i buoni propositi, arriva la classifica di quelli che saranno i superfood dei prossimi 12 mesi. Ovvero gli alimenti che ci faranno restare in forma, ritarderanno l’invecchiamento e ci daranno molteplici benefici grazie alle loro proprietà. Così i trend alimentari sono ai nastri di partenza e si sa già – grazie ai social – quali saranno i superfood più di tendenza per il prossimo anno. A evidenziarli è CiboCrudo, il brand italiano di cibo plant-based e crudista, che ha sovrapposto i trend di TikTok e Instagram con gli studi scientifici e gli argomenti più dibattuti dagli esperti del settore. Il risultato? Nella dieta degli italiani nel 2023 faranno il loro ingresso alghe, erbe ayurvediche e grassi buoni. 

L’anno della moringa

Negli ultimi anni hanno avuto un ruolo di primo piano avocado, tè matcha e quinoa. Il 2023 sarà invece l’anno della moringa. Pianta sub-himalayana, è ricchissima di vitamina C, vitamina E, beta-carotene e proteine, che la rendono ufficialmente un ingrediente superstar. Come usarla? Si può aggiungere un cucchiaino di polvere di moringa al frullato per ottenere uno smoothie verde vibrante che è davvero degno di Instagram. Altro trend in ascesa, i semi di canapa: provenienti dalla pianta della cannabis sativa, sono l’aggiunta perfetta a qualsiasi menù. Gustosi e saporiti – hanno un vago sentore di nocciola – sono soprattutto una riserva di acidi grassi omega-3 e vitamine che supportano la salute del cuore, le funzioni cerebrali e il sistema immunitario. Gli esperti consigliano di spargerli sull’insalata o sul porridge a base di avena, oppure di aggiungerli ai frullati post-workout.

A tutta clorofilla

A proposito di fitness, anche in questo ambito ci sono delle novità: le proteine vegetali in polvere saranno una forma di integrazione alimentare di cui gli sportivi non potranno più fare a meno. Dopo un allenamento intensivo, o per compensare carenze alimentari, le proteine in polvere diventano un aiuto veloce ed efficace.
Un altro trend che arriva direttamente da TikTok è la clorofilla, da assumere in forma liquida o acqua alla clorofilla per guadagnarne in salute. Questa sostanza, fondamentale per le piante, fornisce effettivamente anche diversi benefici per la salute: ha proprietà antiossidanti, depurative, antimicrobiche, favorisce la digestione, è utile a riequilibrare la flora batterica dell’intestino, è ricca di vitamine. 

Grassi buoni

Nel 2023 faremo il pieno di grassi. Grassi buoni, però, e vegetali: i più attenti a un’alimentazione sana hanno già da tempo inserito nella propria dieta il burro di cacao, il burro di cocco, i burri di frutta secca in sostituzione o in alternativa ai grassi animali. Il 2023 sarà l’anno di definitivo sdoganamento, per fare il pieno di benefici.

Italiani, forma fisica e alimentazione: il 66% pratica attività sportiva

Secondo una ricerca dell’Istat su Sport, attività fisica e sedentarietà, nel 2021 il 66,2% degli italiani ha praticato regolarmente attività fisica. Torna quindi a essere attuale anche parlare dell’importanza dell’alimentazione per chi pratica sport. Anche per sfatare falsi miti, come ad esempio quello di abolire i dolci e i grassi, o l’erronea convinzione che i carboidrati ingrassino. In ogni caso, nella top 5 degli alimenti più amati da chi pratica sport, e da chi vuole tenersi in forma, c’è la Bresaola della Valtellina IGP, alimento ricco di proteine, vitamine e sali minerali. Un salume della tradizione che può essere un valido alleato anche per chi svolge un’attività sportiva a livello amatoriale, occasionalmente o con una certa regolarità.

In 20 anni aumenta il numero di sportivi

Negli ultimi 20 anni, in Italia, sempre più persone hanno praticato attività sportiva nel tempo libero, e nel 2021 sono 38 milioni e 653mila, contro i 34 milioni del 2000. Allo stesso tempo, si è ridotto il numero di persone che non pratica alcuna attività, passato dal 37,5% del 2000 al 33,7% del 2021.
Si tratta di dati che confermano le evidenze emerse dall’ultimo rapporto Coop, secondo il quale per gli italiani la salute rimarrà una priorità anche per il 2023. Ma se il 36% pone salute e benessere individuale al primo posto nella scala di importanza personale, e il 39% intende curare l’aspetto esteriore, un italiano su 2, il 47%, si propone di mangiare meglio. Soprattutto a fronte di una maggiore sedentarietà dovuta agli effetti della pandemia. Gli italiani sedentari sono passati da una quota del 22,3% nel 2000 al 27,2% nel 2021.

L’alimentazione è il primo passo per una resa al top

L’alimentazione, soprattutto per chi pratica sport, è il primo passo per una resa al top, e per una buona condizione generale di forma fisica, perché una corretta alimentazione può influire sulla performance sportiva e sull’obiettivo che ogni singolo appassionato intende raggiungere. Negli ultimi tempi, considerati anche i fatti di cronaca, si sta assistendo a un notevole aumento dell’interesse per lo studio della dieta applicata allo sport, sia per calciatori e ginnaste, sia per chi fa yoga o fitness, a livello agonistico oppure amatoriale. 

Il menu del calciatore

“L’alimentazione di chi pratica sport cambia in base al tipo di disciplina praticata e in base a frequenza, durata e intensità dell’allenamento – spiega la dietologa nutrizionista e coach sportiva Valeria Galfano -. Il calcio, ad esempio, è uno sport a ritmo intermittente in cui i giocatori si fermano e ripartono in continuazione, con un ciclo fatto di corsa, sprint e posizionamento. A causa di queste particolari caratteristiche, il fabbisogno calorico dei calciatori risulta particolarmente elevato, prevedendo, anche nei giorni di riposo, un aumentato apporto sia di carboidrati, che forniscono energia immediatamente utilizzabile, sia di proteine, necessarie per il maggior turnover cellulare innescato dall’attività fisica. Grazie alla ricchezza di proteine, vitamine e sali minerali, la Bresaola della Valtellina IGP è un ingrediente sempre presente nel menu degli sportivi, insieme a frutta, verdura, cereali integrali e carni magre”.

Cybersecurity: perchè il settore finanziario italiano è ad alto rischio? 

Il settore finanziario italiano è al centro di un processo di digitalizzazione avanzata che permette di ottimizzare, semplificare, accelerare e rendere più agili le attività aziendali. Ma oggi il 67% dei decision maker IT di questo settore considera ‘alto’ il rischio di un attacco informatico. Secondo la ricerca di Kaspersky dal titolo Sicurezza IT: focus sul settore finanziario in Italia, il 93% dei decision maker IT afferma inoltre che la propria organizzazione ha subito uno o più cyberattacchi o problemi di cybersecurity durante la pandemia. Per il 60% si è trattato di attacchi ransomware e spyware, ma i dati mostrano una particolare diffusione anche di phishing e malware (58%).

Tra le organizzazioni più grandi prevale un senso di sicurezza 

Nonostante l’elevato numero di minacce, l’84% dei decision maker IT pensa che la propria azienda disponga di tutti gli strumenti necessari per contrastare un attacco informatico, percentuali quasi identiche se si prendono in considerazione personale IT (87%) e dirigenti (85%). Questo senso di sicurezza viene percepito soprattutto dalla maggior parte delle aziende che contano oltre 1.000 dipendenti (86%). Secondo quanto dichiarato dagli intervistati queste realtà sono le più protette dalle minacce informatiche, e le più inclini ad affidarsi a un Disaster Recovery Plan (95%).

Quali sono le sfide maggiori per le imprese?

Più di nove intervistati su dieci (91%) hanno dichiarato di avere Disaster Recovery Plan / Business Continuity Plan regolarmente testati, percentuale che scende all’83% tra le organizzazioni più piccole (50-999 dipendenti). Il 26% sostiene però che manchino le competenze interne adeguate, dato che sale al 39% tra le piccole-medie imprese (250-999 dipendenti). Secondo un responsabile IT di una grande azienda con oltre 5.000 dipendenti la sfida maggiore è “poter fare affidamento su una strategia informatica pronta e reattiva”, mentre per un dirigente di un’azienda delle stesse dimensioni sono gli “attacchi malware, perché sempre più sofisticati e invasivi”. E per il responsabile IT di una realtà con meno di 5.000 dipendenti la sfida è “avere competenze a sufficienza per fronteggiare questi problemi”.

Si temono perdite finanziarie, frodi e contenziosi normativi

Le società bancarie e finanziarie, indipendentemente dalla dimensione, temono soprattutto perdite finanziarie ingenti per azienda e clienti (44%), o la frode, la manipolazione e l’uso improprio dei servizi (40%). L’impatto economico di multe o contenziosi normativi si colloca al terzo posto (32%). Il 57% degli intervistati concorda sul fatto che il crescente onere normativo possa aumentare il rischio di non conformità, con una percentuale leggermente superiore tra chi opera nel settore IT (62%) o nelle organizzazioni sotto i 1.000 dipendenti (61%). La preoccupazione maggiore per le istituzioni finanziarie con oltre 1.000 dipendenti è, invece, registrare perdite economiche considerevoli a causa di transazioni false (47%). Percentuale che si riduce al 39% tra le aziende più piccole (50-999 dipendenti), che temono anche di subire danni all’immagine per un’insufficiente conformità alla sicurezza delle informazioni.

Outsourcing: un mercato da 19 miliardi di euro

Oggi in Italia le imprese che gestiscono processi di outsourcing sono circa 30.000, con quasi 200.000 occupati, e un fatturato che si attesta sui 19 miliardi di euro, per un valore aggiunto di 9,4 miliardi.
È quanto emerge dal rapporto La seconda transizione dell’outsourcing, realizzato dal Censis in collaborazione con il Gruppo De Pasquale. Il report identifica le leve che possono portare l’esternalizzazione dei processi ad assumere anche il ruolo di motore della crescita e dell’innovazione nelle imprese, ed evidenzia le traiettorie che si stanno consolidando.

Un comparto in continua crescita

Il Censis ha elaborato una stima del valore del settore dell’outsourcing, inteso come l’insieme di attività e processi che le aziende o gli enti affidano a terze parti in base alle diverse strategie perseguite.  Il report conferma il percorso di crescita che in Italia sta interessando l’intero Business process outsourcing (Bpo). Nel confronto con i dati al 2016, già nel 2019 si registrava un aumento del 15,8% nel numero di imprese che gestiscono processi di outsourcing, una crescita dell’occupazione del 13,3% e un incremento del fatturato pari al 15,5%.

Più collaborazioni e più competenze

Si prospetta però un cambiamento di paradigma: le aziende che esternalizzano processi e servizi hanno maturato una maggiore consapevolezza in merito ai vantaggi che derivano dai meccanismi di integrazione, scambio, collaborazione, sia in un’ottica di espansione (outward looking) sia secondo una logica di ottimizzazione (inward looking).  La ricerca di nuovi mercati e nuovi clienti spinge la collaborazione tra le imprese. Questo, in particolare per il 38,7% delle imprese, cui fa seguito la necessità di contenere i costi (36,1%) e di sviluppare l’innovazione di processo o di prodotto (22,9%).
Il 20% delle aziende poi si concentra sulle partnership per acquisire nuove competenze e tecnologie, accrescere la flessibilità organizzativa e implementare strategie di internazionalizzazione.

Da un modello a scala ridotta a un ecosistema di imprese

Le relazioni fra le imprese, facilitate dalla digitalizzazione e da una competizione che si sposta dal livello di singola impresa e di singolo territorio al livello di ecosistema, riducono i condizionamenti della piccola dimensione d’impresa, e favoriscono la creazione di valore aggiunto su una scala più ampia. Questo elemento assume un’importanza decisiva a maggior ragione in Italia, vista la persistenza di modelli imprenditoriali a scala ridotta e la difficoltà di innalzare la dimensione media delle aziende. Fattori che rendono il sistema produttivo di beni e servizi estremamente frammentato, con oltre 4 milioni di imprese con meno di 10 addetti, e poco più di 4.000 che superano la soglia dei 250 addetti.

Imprese vitivinicole: il futuro è digitale 

Il settore vitivinicolo italiano è composto per più del 92% da piccole imprese, dove il 74,7%, circa 46.000 aziende vinificatrici, è rappresentato da aziende che producono meno di 100 ettolitri di vino all’anno, ovvero, meno di 15.000 bottiglie da 0,75 litri. Il 17,5% riguarda invece le realtà che producono più di 100 ettolitri, ma meno di 1000, mentre sono meno di 100 (0,2%) le imprese in Italia che producono più di 13.000 bottiglie di vino annue, oltre i 100.000 ettolitri, pur rappresentando il 41,8% della produzione nazionale di vino. TeamSystem ha commissionato a Wine Meridian una ricerca per sondare il livello di digitalizzazione di queste imprese. E i risultati mostrano che anche per le realtà più piccole il digitale è la chiave per accrescere la competitività, in Italia e sui mercati esteri.

Digitalizzazione: una grande opportunità per il settore

La ricerca ha coinvolto 230 imprese, di cui più della metà (51%) con un fatturato inferiore ai 2 milioni di euro l’anno e meno di dieci dipendenti (52%). La ricerca evidenzia come il digitale sia visto dalle imprese campione come una grande opportunità, con solo il 7,1% che ritiene abbia solamente un ruolo marginale nel settore vitivinicolo. A fronte di questo gruppo di scettici, la maggior parte degli intervistati crede nel digitale.
Oltre a chi afferma di puntare sul digitale già da anni, un 44,4% è convinto che rappresenti il futuro del settore, mentre il 30,3% sta iniziando in questo momento a intraprendere il proprio percorso di trasformazione digitale e a trarne i primi benefici.

Quanto sono smart le aziende?

Considerando la crescita costante registrata dall’e-commerce negli ultimi anni, per il 60% delle imprese questo rappresenta uno dei fattori su cui la digitalizzazione influisce maggiormente. Non meno importante è la volontà di digitalizzare tutto il processo di produzione (40%).
Se il 77% del campione si è già dotato di un software gestionale per la contabilità aziendale, e le operazioni di magazzino sono seguite tramite gestionale dal 57%, passi avanti restano ancora da fare per quel che riguarda il monitoraggio delle attività in cantina.
Queste ultime, infatti, sono monitorate grazie ad applicativi gestionali (MES, PLM) soltanto dal 34% degli intervistati, contro il 48% che utilizza ancora strumenti o database locali (come i fogli di calcolo Excel), il 12% che si affida a sistemi manuali, e il 6% che dichiara di non tracciare affatto i flussi operativi della propria cantina.

Enoturismo: portali web e sistemi CRM

Spazio di crescita resta anche nella digitalizzazione dell’enoturismo, fenomeno sempre più importante per i produttori. Molte piccole aziende non hanno ancora digitalizzato l’enoturismo (37%), mentre altre si affidano a portali web, dove le grandi aziende si avvalgono ormai per la maggior parte di sistemi CRM. La ricerca evidenzia inoltre come quasi un imprenditore vitivinicolo su 3 (31%) non è a conoscenza dell’esistenza degli incentivi statali per la digitalizzazione, mentre il 15% dichiara di non essere intenzionato ad accedervi perché troppo onerosi da ottenere, considerando lo sforzo di investimento iniziale richiesto.

Multicanalità: nel 2022 i consumatori raggiungono i 46,3 milioni (89%)

Ben 46,3 milioni, pari all’89% della popolazione italiana: a tanto ammontano i consumatori multicanale nel 2022. E’ la prima evidenza che emerge dalla ricerca dell’Osservatorio Multicanalità promosso dalla School of Management del Politecnico di Milano e da NielsenIQ. In particolare, aumentano i consumatori digitali più maturi passando da 17,1 milioni nel 2021 a 19,7 nel 2022 (+10%): infatti, crescono i Digital Rooted (+2 p.p.), profili digitalmente maturi esperti di social media e pagamenti digitali, che raggiungono quota 8,4 milioni, il 16% della popolazione. Aumentano anche i Digital Engaged, che crescono di 3 punti percentuali rispetto al 2021 salendo a 11,3 milioni, pari al 22% degli italiani. Questi ultimi sono profili che utilizzano la rete in modo intenso e disinvolto, in particolare dallo smartphone, ma rimangono più legati al negozio fisico rispetto ai Rooted. Scendono, invece, a quota 8,9 milioni i Digital Bouncers (-5%), consumatori che utilizzano la rete come supporto nella fase di pre e post vendita, ma acquistano nel negozio fisico. Questo cluster accoglie anche i giovani nuovi consumatori, abituati a un utilizzo fluido del digitale ma ancora non avvezzi ai processi di acquisto nei diversi settori. In lieve aumento i Digital Rookies (+1 p.p.), pari a 17,7 milioni di individui (il 34% degli italiani), profili che muovono piccoli passi nel digitale, nonostante la loro dotazione tecnologica sia sotto media e la loro connessione sia prevalentemente da pc fisso. Infine i Digital Unplugged, categoria refrattaria al digitale. Sono 6 milioni, l’11% dalla popolazione, con il 76% dei consumatori sopra i 55 anni.

Il settore che più utilizza Internet nei processi d’acquisto? Quello dei viaggi

Il settore dei viaggi si riconferma al primo posto per numero di individui che utilizzano internet all’interno del processo di acquisto, aumentano i consumatori che scelgono il web sia in fase di ricerca informazioni (73%, +2%.), sia in fase d’acquisto (45%, + 2%). Gli utenti internet scelgono il web soprattutto per la raccolta di informazioni: in media, il 65% si documenta in rete su prodotti e servizi, si registrano percentuali sopra il 50% in tutte le categorie di users. Segue la comparazione dei prezzi, effettuata online dal 58% del campione.

La popolazione italiana divisa in due sull’interazione multicanale

“Stiamo assistendo a una divisione “strutturale” della popolazione italiana in due gruppi distinti in termini di capacità/opportunità di interazione multicanale con il sistema dell’offerta – dichiara Giuliano Noci, Responsabile Scientifico dell’Osservatorio Multicanalità. Da un lato chi passa in modo fluido da un touchpoint all’altro durante il suo percorso d’acquisto assumendo uno spazio integrato (tra fisco e digitale) di interazione con la marca; dall’altro chi (45% della popolazione) non ha sviluppato queste abitudini ed è molto legato al punto vendita fisico peri propri acquisti. Questa divisione è figlia di un divario generazionale talmente forte da determinare ormai una polarizzazione (irreversibile) delle abitudini d’acquisto”.

Telefonia: in un anno oltre 3 milioni di italiani truffati

Lo rivela un’indagine di Facile.it commissionata agli istituti mUp Research e Norstat: In dodici mesi sono stati oltre 3,3 milioni gli italiani che hanno subito una truffa telefonica, con un danno economico complessivo di quasi 400 milioni di euro. È la telefonia, fissa e mobile, l’ambito di spesa dove gli italiani cadono in trappola con maggior frequenza. Il 7,7% degli intervistati ha infatti ammesso di essere stato truffato, e la telefonia mobile risulta maggiormente colpita rispetto a quella fissa (5,2% vs 4,1%). Quanto alla classifica degli altri ambiti maggiormente presi di mira si posizionano anche le utenze di luce e gas (7,1%) e le carte elettroniche (6,5%). Le polizze Rc auto e moto, sebbene considerate spesso tra le più ambite dai malfattori, sono le aree dove in percentuale gli italiani sono caduti in trappola meno frequentemente (1,4%).

I canali più usati dai malfattori: email e finti call center

Il danno medio per ogni truffato è di 119 euro. L’importo varia a seconda della voce di spesa familiare, raggiungendo il valore più alto per le truffe legate ai prestiti personali, dove chi è caduto in trappola ha perso, sempre in media, 1.490 euro. Distinguendo tra telefonia mobile e fissa, l’indagine ha analizzato gli strumenti attraverso cui vengono portate a termine le frodi.
In entrambi i casi i canali più usati dai malfattori sono stati le email e i finti call center. Nella telefonia mobile quasi 1 truffa su 2 (42,5%) è passata tramite un’email, percentuale che scende leggermente nel caso della telefonia fissa (37,4%), mentre i finti call center hanno riguardato il 33,1% delle frodi in ambito mobile e il 39,4% la rete fissa.

Il 47,5% di chi è caduto in trappola non sporge denuncia

Come si comportano i truffati dopo aver subito una frode legata alla telefonia? Il 47,5% di chi è caduto in trappola ha deciso di non denunciare, valore più alto rispetto alla media rilevata nelle altre voci di spesa familiare oggetto di indagine. Ma per quali motivi non si denuncia? Fra coloro che hanno deciso di non sporgere denuncia il 36,1% non lo ha fatto perché il danno economico era basso, mentre il 25,2% perché certo di non recuperare quanto perso. Per il 15,9% dei truffati che non hanno sporto denuncia, invece, la ragione è di natura psicologica: “si sentivano ingenui per esserci cascati”. E l 13,5%, non lo ha fatto per paura che ne venissero a conoscenza i familiari.

Le vittime predilette sono soprattutto uomini laureati

In ambito telefonico, le vittime predilette sono soprattutto gli uomini (9,7% rispetto al 5,7% del campione femminile), e a dispetto di quanto si possa pensare, gli intervistati con un titolo di studio universitario (11% rispetto al 5,7% rilevato tra i non laureati). Scomponendo il campione emerge che nel caso della telefonia mobile sono caduti vittima con maggior frequenza gli appartenenti alla fascia anagrafica tra 18-24 anni (12,2%).

Come poter lavorare in sicurezza sul tetto di casa

I lavori di manutenzione in casa, ordinaria o straordinaria in base alle necessità, non finiscono mai.

C’è sempre qualcosa che non funziona e che va riparata o qualcos’altro che necessita di una regolazione o intervento di manutenzione.

Spesso inoltre, gli ambienti in cui tali riparazioni vanno effettuate sono piuttosto ostili e rendono per questo difficile o pericolosa tale tipo di pratica.

Pensiamo ad esempio agli scantinati, notoriamente bui e caratterizzati da spazi angusti, ma anche e soprattutto il tetto.

Il tetto di casa nasconde parecchie insidie


Spesso infatti, corso dell’anno abbiamo bisogno di salire sul tetto per i motivi più vari.

C’è chi ha bisogno di fare una regolazione sull’antenna televisiva o direttamente sostituirla; altri invece hanno bisogno di fare una riparazione che riguarda le tegole del tetto mentre altri ancora potrebbero ad esempio aver bisogno di fare una pulizia del comignolo del camino o una riparazione.

Dunque i motivi per i quali abbiamo necessità di salire sul tetto possono essere i più svariati e dietro ciascuno di essi si cela il pericolo più grande: una caduta dal tetto.

Cadere dal tetto Infatti può comportare un infortunio serio o comunque conseguenze certamente poco piacevoli per la persona. Non è sufficiente prestare attenzione, sebbene sia doveroso, in quanto un passo falso o semplicemente uno scivolamento del piede può capitare a chiunque.

Bisogna allora individuare quegli strumenti che consentono di poter lavorare in sicurezza sul tetto di casa, in grado di limitare in maniera importante gli effetti di qualsiasi caduta.

I dispositivi anticaduta

Per risolvere questo tipo di esigenza è sufficiente utilizzare i dispositivi anticaduta. Tali dispositivi, che sono obbligatori per legge quando si lavora ad un altezza pari o superiore ai 2 metri, riescono ad intervenire in maniera efficace andando ad interrompere un eventuale caduta ed impedendo così alla persona di toccare il suolo.

In particolar modo la persona in questione indossa una particolare imbracatura ad una corda o fune che è assicurata su di una linea vita tetto, un sistema di ancoraggio che offre la garanzia necessaria in questi casi.

Proprio l’imbracatura, collegata alla linea vita tetto, impedirà fisicamente alla persona di cadere, proprio quel di cui si ha bisogno quando si lavora ad una certa altezza dal suolo.

Grazie ai dispositivi anticaduta dunque, anche nel caso in cui una persona possa inavvertitamente cadere dal tetto, le conseguenze sarebbero praticamente nulle, in quanto la caduta verrebbe prontamente arrestata.

Inoltre, grazie ad un efficace sistema di frizioni e rallentamento, la maggior parte dell’urto dovuto all’improvvisa frenata non sarebbe assorbito dal corpo della persona stessa, ma al contrario tali forze verrebbero distribuite in maniera uniforme.

Una soluzione efficace e facile da usare


Si tratta dunque di una soluzione da usare certamente per evitare ogni tipo di rischio ed alla portata di tutti, davvero molto efficace.

Tra l’altro questo tipo di sistema è adoperato anche nei cantieri, proprio in virtù della assoluta sicurezza che garantisce agli operai che lavorano in quota.

Il fatto che ogni caduta possa essere prontamente arrestata infatti, costituisce un valido motivo per farne utilizzo anche se non si è professionisti nel settore dell’edilizia, ma semplicemente si desidera rendere innocua una eventuale caduta quando si lavora sul tetto di casa propria o comunque ad una altezza tale che richieda una misura di sicurezza adeguata.

Dunque l’utilizzo combinato di una linea vita con una imbracatura ed una fune a collegare i due dispositivi rappresenta certamente una risorsa sufficiente a far sì che ogni tipo di lavoro possa essere effettuato in maniera serena e senza la paura dover affrontare le conseguenze di una eventuale caduta.